46. Fratelli

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Hoseok's pov

Avevo appena finito di accordare le corde del mio violino, e dopo averlo sistemato nella giusta posizione, iniziai ad accarezzarlo con l'archetto, producendo la prima melodia che mi venne in mente, che produssi in poche ore, un giorno di circa dieci anni prima, seduto davanti al camino insieme ai miei fratelli, mentre fuori un burrascoso temporale si accaniva sui vetri leggeri della nostra elegante casa.

Sembrava di vivere in un collegio, ma infondo ci bastava stare insieme per sentirci meno oppressi da quelle spaziose mura di casa.

Sorrisi al pensiero di quella serata. Tutti parlavano di noi con un ampio sorriso sulle labbra, tutti meno che i nostri genitori, che quegli ampi sorrisi li riservavano solamente a Kihyun, in quanto fratello maggiore ed apparentemente più assennato. In quel momento, proprio come le sorelle del romanzo “piccole donne”, tutti e tre stavamo rivolgendo la nostra arte a qualcosa di diverso: infatti, mentre io segnavo le note su uno spartito provandole di tanto in tanto, e Kihyun leggeva un libro, annotandone i pensieri che più gli piacevano, Jungkook schizzava il fuoco a carboncino, in religioso silenzio, al contrario del maggiore che di tanto in tanto mi domandava di mostrargli a che punto fossi arrivato, così da aver suonata qualcosa e potersi concentrare maggiormente nella sua lettura, ed io non potevo fare altro se non accontentarlo.

Era questo il potere che aveva la musica per me: riportava nella mia mente ricordi ed esperienze che pensavo di aver dimenticato, perché infondo quel tardo pomeriggio non ebbe nulla di memorabile, se non uno dei soliti battibecchi con i nostri genitori, ormai all'ordine del giorno, che ferivano più il maggiore tra noi tre rispetto a me e Jungkook, abituati invece alle loro cattiverie e al loro fallimentare modo di spronare quelli che credevano gli elementi “sbagliati” nella nostra famiglia di gente colta che ebbe un futuro prosperoso ed invidiabile, portando alto il nome dei Jeon.

Chissà cosa ne pensereste di quello che siamo ora, mamma e papà.

10 anni prima

Io e Jungkook non eravamo spaventati: forse era rassegnazione, la nostra, data dal fatto che infondo entrare in quella buia stanza in cui di tanto in tanto venivamo reclamati con il cuore in mano, non avrebbe fatto altro che farci vivere con una perenne ansia di mostrare ciò che eravamo e di viverlo con fierezza, senza aver paura di venir considerati inutili solo perché non promettenti notai ed imprenditori di successo.

Ci lanciammo un rapido sguardo, quando un uomo della servitù aprì la porta dello studio di nostro padre, e noi lo ringraziammo a bassa voce, prima di pararci davanti la sua scrivania in prezioso legno d'ebano, in cui carte, francobolli, timbri, fermacarte ed un calamaio rendevano quasi impossibile scorgerne la superficie.

Nostro padre si alzò gli occhiali sul ponte del naso con la punta di un dito, scrivendo rapidamente qualcosa su un foglio, prima di alzare lo sguardo su di noi e fare un cenno al maggiordomo che si inchinò formalmente e si chiuse la porta alle spalle, lasciando noi tre da soli.

Si respirava aria di chiuso e di tensione in quella stanza dai mobili rossastri, in cui l'unica luce proveniva da una lampada ad olio decisamente vintage posta all'angolo della disordinata scrivania.

“Penso che voi sappiate perché siete qui” tuonò, ma né io e mio fratello rispondemmo.

Perché eravamo lì? Non lo sapevamo neanche noi, non lo sapevamo mai, eppure lo sapevamo sempre, perché non ci fu una volta in cui le nostre costrette visite nella sua stanza non riguardavano un modo diverso per denigrarci.

“E' buona educazione rispondere quando vi pongo una domanda” disse atono, guardando poi con insistenza Jungkook, il cui sguardo si era fissato su un punto della stanza, ed io capii immediatamente che neppure l'avesse sentita, questa fantomatica domanda.

 𝘏𝘖𝘛𝘌𝘓 𝘉𝘓𝘈𝘊𝘒 𝘔𝘖𝘛𝘏 // 𝔧𝔢𝔬𝔫 𝔧𝔲𝔫𝔤𝔨𝔬𝔬𝔨 ✔️Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora