Capitolo 8

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Emma

Con una scusa lascio quell'appartamento rientrando di corsa nel mio. Mi appoggio alla porta finalmente chiusa alle mie spalle e chiudo gli occhi inspirando e espirando pazientemente fino a quando i miei sensi, il mio respiro, il mio cuore tornano a un ritmo normale.

Quando sento di essermi ripresa mi incammino sul divano, dove mi siedo con le gambe sotto il sedere. Afferro il cuscino al mio fianco destro e me lo stringo al petto poggiando sopra il mento.

«Okay.»

Ho rivisto Sergio e questo è sconvolgente anche perché lui stesso è sconvolgente e poi... poi mi sono trovata forse la sorpresa più improbabile del mondo: il frutto dei miei desideri in carne e ossa a pochi metri da me.

Ancora incredula chiudo gli occhi e il viso di Enrico mi appare sorridente così come tante volte lo ho immaginato senza neanche conoscerlo.

«È impossibile...» invece è vero. «No, impossibile.» E invece si. «Impossibile!» e se invece potessi.

Salto in aria al suono del mio telefono abbandonato chissà dove. Gattono fino al tavolino di fianco al divano e alzo gli occhi al cielo prima di ritornare alla posizione di prima.

«Pronto mamma.» Ovviamente non poteva che essere lei. Starà gongolando per il suo piano perfetto. Ha appena piazzato due splendidi uomini, credo scapoli, a pochi metri da sua figlia.

«Ciao amore, Sergio è arrivato?» La sento sorridere beffarda di cosa questo comporterà per me e la mia sanità mentale da una settimana a questa parte particolarmente labile.

«Si, mamma e anche Enrico.» Sottolineo il mome strascicandolo un po'. «Forse ti sei dimenticata di parlarmi di questo Enrico.» Il sarcasmo della mia voce non le fa né caldo né freddo.

«Bene, sono due bravi ragazzi Emma. Ho conosciuto Enrico quest'estate, quando tu non sei voluta scendere in vacanza.» Cavolo.

«Mamma, avevo il covid, non sono potuta scendere è diverso.» Avrei già potuto conoscerlo. Al solito i miei pensieri si perdono fra mani insinuate in morbidi capelli castani e ansiti soffocati.

«Emma, Emma! Figlia mia ci sei?» Sbuffo, interrotta da quella donna impazzita. Penso sia esagerato quello che ha fatto.

«Ci sono.» Sospirando stringo ancora il cuscino.

«Comincio a preoccuparmi, non hai mai avuto la testa così per aria.» Detto da lei, che ha già fantasticato il mio matrimonio con uno dei poveri ignari uomini, fa ridere.

«Hmmm...» Non ho voglia di farle capire che stavolta il suo colpo è andato a segno, non come quando mi ha organizzato l'incontro al buio con il nipote della sua amica che, per carità, era un bel ragazzo ma delle sue attenzioni ha beneficiato Luca. Poso il telefono in vivavoce sul tavolino di fronte a me e torno a stringere il cuscino. Potrà mai difendermi da mia madre?

«Dovresti invitarli a pranzo. Non avranno nulla da mangiare,è un gesto carino per iniziare in buon modo la convivenza.» Sbatto la testa su quella soffice piuma d'oca racchiusa fra le mie braccia.

«Non credo proprio mamma. Se sono cresciuti lontani da casa sapranno cosa fare per sopravvivere.» Forse sono un po' troppo acida, ma mi manca solo la spinta di mia madre fra le braccia del mio sogno proibito.

«Emma Leone, non ti permetto di utilizzare questo tono! Puoi fare la cinica e asociale ma non permetterti di essere scortese. Io e tuo padre...» cinica? E la prima volta che mia madre mi definisce così. Sono davvero diventata così realista da non permettermi più di apprezzare le sfumature belle delle cose? «... quindi ora comportati bene, la zia Maria e lo zio Nino sono sempre stati molto affezionati a te e se anche Sergio ormai è un uomo, per noi genitori, siete sempre dei ragazzini.» Sospiro ferita dalle sue parole. Io non sono cinica.

«Dai mamma su, scherzavo. Sarò degna di te, mi metto subito all'opera allora, per le lasagne ho bisogno di tempo.» Mi alzo come se fossi veramente intenzionata a cucinare.

«Emma...» Non so cosa mia madre voglia aggiungere ancora ma non sono disposta a sentire altro stamattina.

«Ci sentiamo dopo.» E come sempre concludo la chiamata con mia madre ancora pronta ad aggiungere qualcos'altro.

Alzo le mani alla testa e incrocio le dita sul capo. «E ora...» Mi guardo attorno preoccupata che una parte di me dia ragione a quella donna. Sbuffo e cerco di organizzare la mia giornata.

È insolito che il sabato mattina sia già vestita a quest'ora e non so cosa fare. Guardo la stanza dai toni chiari che è il mio salotto: parquet di rovere, divano bianco come le pareti e mobili di un tenue verde prato. È tutto perfettamente pulito, tranne le tazzine di caffè ancora sul tavolo che mi fanno capire che è stato tutto vero.

Decido di mettere in ordine e di anticipare la spesa del lunedì a oggi. Non posso stare qui con l'ansia che qualcuno prima o poi venga a bussare alla mia porta e se poi quel qualcuno fosse anche attraente sarebbe la fine.

Una volta sistemato tutto indosso un giubotto, afferro la borsa e me ne scappo letteralmente da casa mia. La tentazione di guardare verso l'alto è forte, ma la freno, spero di riuscire a sgattaiolare via senza essere vista.

Due uomini portano su la testata di un letto e per farli passare sono obbligata a voltarmi, lo sguardo va al balcone sopra l'ingresso e una sensazione di calore attraversa il mio corpo.

Enrico ha i gomiti appoggiati al parapetto, la giacca è sparita e la camicia azzurra ha le maniche arrotolate fino ai gomiti. I suoi occhi sono puntati su di me accompagnati da un sorriso che promette così tante cose che ho paura di esserne investita.

La sua mano destra tiene la sigaretta elettronica e la sinistra si muove per un saluto.

Ricambio quell'occhiata per qualche secondo, poi faccio un cenno con il capo e vedendo che gli operai mi hanno superata riprendo a camminare verso la mia auto posteggiata davanti casa.

Qualcosa di nero con gambe muscolose sta appoggiato al mio sportello. Sergio è concentrato a guardarsi le scarpe mentre parla con qualcuno al telefono. Con coraggio mi avvicino e il rumore dei miei passi attira la sua attenzione.

Il volto si alza e l'espressione dispiaciuta che attraversa il suo viso mi coglie stupita. Tutto viene subito cancellato e il telefono riposto nella tasca.

«Ehi.» Si spinge in avanti staccandosi dalla carrozzeria bianca della mia cinquecento. Il movimento è fluido, elegante e la seconda volta che mi stupisco del contrasto tra la forza che emana e l'armonia con cui si muove.

«Ehi. Scusa, non volevo disturbarti, ma quella è la mia auto...» premo il telecomando e il suono dell'apertura centralizzata viene accompagnata dalle frecce che si illuminano.

«Scusa, mi sposto subito. Stai uscendo?» Faccio il giro verso lo sportello del guidatore velocemente, così da mettere un po' di distanza fra noi.

«Sì, stavo andando al supermercato.» Tiro la maniglia pronta a salire.

«Al supermercato... ti spiace se andiamo insieme. Non conosco molto bene la zona e dovremmo prendere alcune cose anche noi.» La mia bocca si apre senza emettere un suono. Io e lui dentro questa scatoletta. No!

«Certo...» il tono più falso della mia vita accompagnato dal sorriso più falso della mia vita.

Lui mi osserva e io continuo a forzare quell'espressione ma sono certa che lui abbia capito tutto. Il suo capo si inclina e gli occhi si assottigliano, sembra valutare se sia giusto sottopormi a questa tortura.

«Vado un attimo dentro e arrivo.» Si gira lentamente avviandosi con le mani nelle tasche verso l'ingresso. Sembra quasi vivere in un mondo tutto suo, non mi so spiegare il ragazzo che ho davanti ma mi sembra diverso dal giovane spensierato che conoscevo.

A differenza sua io mi precipito sul sedile che mi accoglie celandomi da quei due.

Inspiro e respiro. Posso farcela, in fondo il supermercato non è così lontano. Chiudo gli occhi in cerca della mia vecchia me... un profumo mi investe.

«Ti spiace se vengo anche io?» Le mani stringono il volante fino a imbiancarsi.

«No, certo che no.» Dio aiutami.

A volte l'amore fa dei giri immensiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora