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Le punte delle mie dita erano vicinissime al suo fianco. Era strano pensare che si poteva essere così vicini ad una persona, ma sentirsi completamente in due diversi pianeti appartenenti a due differenti sistemi solari.

Anche se lo spazio tra me e lui era minimo, io rimanevo un’estranea per lui. Un’estranea senza nome, che non riusciva a farsi i fatti propri. Probabilmente pensava che fossi pazza ad essere rimasta lì. Ma come potevo andarmene? Come si poteva lasciare una cosa così bella e allo stesso tempo fragile? Come si poteva lasciarsela alle spalle come se non avesse mai catturato la tua attenzione? Come se non fossi mai stato accecato dalla perfezione e il tuo cuore non si fosse spezzato davanti alla sua insicurezza. E poi finalmente realizzai come potesse contenere entrambe le persone in sé. Il ragazzo che scrive parole che rendono la bellezza delle stelle una vergogna, ma allo stesso tempo poteva buttarsi sul letto e lasciare che la sua espressione si faccia confusa. Era come il giorno e la notte. Era come amore e odio. Una parte non poteva esistere senza l’altra.

Era pieno del peggio e del meglio. I pensieri più belli con quelli più spaventosi.

Il mio interesse per lui era troppo, in quella stanza scura, dove tutto era illuminato da una soffusa luce rossa. I fogli sul pavimento nel mezzo della stanza erano cremisi, creando un atmosfera surrealista.

Era questo interesse, questa sensazione surrealista che spinsero la mia mano. Dovevo assicurarmi che lui fosse lì. Che lui fosse reale. Perché, come potrebbe esserlo?

Lentamente i miei polpastrelli vennero in contatto con la stoffa dei suoi vestiti. Guardai con ammirazione il contrasto tra la sua pelle e i pantaloni neri.

Era come se l’intera stanza si fosse fermata nel tempo. Il suo petto, pieno di aria, rimase fermo, le luci provenienti dalle macchine, si erano fermate, la musica dall’altra stanza, muta.

Lui era reale.

Il tocco era così leggero che dubito se ne fosse accorto, rimanendo sdraiato con gli occhi chiusi. Ancora aspettando la mia risposta al suo interrogativo perché.

Quando si mosse, io ritrassi in fretta la mano. Il mio cuore batteva senza sosta. I miei occhi erano spalancati. Il momento era passato. Osservai come mosse il braccio per raggiungere la collana a forma di aeroplanino di carta, giocandoci con le mani.

“Immagino che non ci sia una spiegazione, allora.” Un sospiro gli fuoriuscì dalle labbra, sempre mantenendo gli occhi chiusi. Mi resi conto che magari lui, nella parte più profonda del suo cuore aveva sperato. Aveva sperato che ci fosse una ragione per cui io fossi felice di vederlo. Di averlo trovato. Di essere rimasta lì. Ma il mio silenzio aveva ucciso quel piccolo barlume di speranza.

Le mie labbra si aprirono per dirgli che non era vero. Le mie labbra si aprirono così io avrei potuto dirglielo. Convincerlo. In qualche modo, fargli credere che lui era molto di più di tutte le altre persone che io avessi mai conosciuto. Mai incontrato. Che lui possedeva un dono, che molti desideravano. Un talento che solo poche persone avevano. Che lui era speciale. Che i suoi pensieri, i suoi scarabocchi e poesie, i suoi appunti e la sua musica erano semplicemente ed incredibilmente bellissimi.

Con il mio cuore che minacciava di scoppiarmi nel petto, facendo scorrere l’adrenalina per tutto il mio corpo, mi preparai a dirglielo. Ad aprirgli gli occhi. A fare di tutto in mio potere per convincerlo. A fargli dimenticare quelle parole che qualcuno una volta gli aveva fatto credere. Inspirai, cercando di trovare le parole giuste.  Come potevo dirgli a parole come si stesse sbagliando sul suo conto? Le parole non erano abbastanza. Avevo bisogno di molto più che delle semplici parole.

Non ero sicura su come cominciare ma il primo suono era già sulla punta della lingua, pronto a rompere il silenzio, quando la porta venne aperta di scatto, lasciando entrare la musica tanto violentemente che quasi mi fece strozzare con le mie stesse parole.

Jenny, con i suoi capelli rossi, aveva la mano sulla maniglia della porta, strizzando gli occhi per via del buio.

L’improvviso movimento della porta aveva fatto alzare Harry, come una marionetta. I suoi occhi erano spalancati e la sua schiena muscolosa, completamente tesa. Potevo percepire come il suo respiro era diventato più rapido dallo stesso shock che avevo provato io. Lo stato pacifico e disperato con cui era rimasto sdraiato sul letto, solo pochi secondi fa, era svanito.  Come nebbia in un raggio di sole. Era sparito subito, quando i suoi occhi avevano visto Jenny. Allontanato. Notando i familiari capelli rossi, il suo sguardo si tranquillizzò e le sue spalle si abbassarono, realizzando che l’intruso non era una minaccia.

“Amber?”

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