Capitolo 6

745 36 25
                                    

Aleksander

La riunione è finita. Con un segno di saluto esco velocemente da quella stanza come molti dei miei colleghi. Chi si attarda è colui che avrebbe voluto avere un ruolo in questo disastro e non ce l'ha. Fuori da quella stanza ognuno di noi si porta dietro emozioni diverse. L'eco delle parole del direttore mi accompagna alimentando la mia rabbia e la mia resa. Passo la mano destra fra i capelli mentre con la testa che mi scoppia ritorno nel mio ufficio, al mio fianco sento i passi di Ivan. Se non fosse per quel ritmo cadenzato crederei di essere solo. "Cose da fare prima della partenza" è la lista che mi si forma in mente. Per autodifesa o difetto di lavoro ho subito messo di lato la parte emotiva, ormai le cose andranno come devono e io non ho modo di evitarlo. Avanzo in quel freddo corridoio che si affaccia sull'atrio, con la schiena curva dal peso di quello che sarà. Sbircio l'orologio che ho al polso, sono le quattro e mezza, i nostri uomini sono già in azione. Alzo il viso verso la cupola di vetro e mi sembra di scorgere i primi bagliori dell'alba. L'angoscia per il terribile risveglio che avranno quelle povere persone mi inaridisce dentro. Vorrei correre al telefono e avvertire tutti, ma l'unica cosa che otterrei sarebbe la mia morte e allora codardo riprendo quel passo che avevo fermato.

Siamo arrivati e Ivan si ferma accanto a me, non è ancora pronto a restare solo e forse neanche io. Apro la porta e mi accorgo che la luce sul tavolo è accesa, premo l'interruttore di quella principale. «Credevo di aver spento tutto.» Mi avvicino alla scrivania non badando a Ivan che ha appena acceso la tv, in cerca del canale nazionale. Il vociare di un vecchio film comico con gli applausi e le risate registrate riempie quel pesante silenzio in maniera irrispettosa, mi volgo a guardare quelle immagini mentre continuo la mia camminata.

«Aspetto qui, okay?» capisco la sua necessità di condividere con qualcuno il momento in cui ci macchieremo le mani di sangue. Il direttore ci ha informato sulle prime mosse dell'assalto. Bombarderanno l'aeroporto di Kiev per prima cosa, per poi avanzare anche via terra. Non è ben chiaro l'obiettivo del nostro presidente, almeno per noi. Sicuramente vorrebbe riprendersi tutta l'Ucraina ma è assolutamente impossibile che la comunità internazionale permetta una cosa del genere. Sono più dell'idea che si riprenderà i territori persi in passato che sono anche quelli più ricchi, la zona della Crimea. Per fare questo però metteremo sotto attacco tutte le loro città più importanti.

«Certo fa pure.» Finalmente ho capito il perché della luce accesa e ne sono amareggiato. Piegata con cura fra le mie carte c'è l'uniforme dell'esercito russo. Una tuta mimetica di base nera a sfumare verso i colori della terra.
Sembra prendersi beffa di me salutandomi con un bentornato. L'avevo posata poco prima del duemilaquattordici quando mi era stato chiaro che non volevo partecipare ad alcune guerra. Io amavo la disciplina del mondo militare ma l'ho comunque sempre visto come necessario per difendersi non per attaccare. In quegli anni studiavo durante la leva militare ero giovane e pieno di sogni e anche nella divisa vedevo qualcosa di significativo, ero fiero del mio patriottismo. Poi ho aperto gli occhi e ho scelto come unica passione lo spazio.

Non riesco a toccarla, come anche quella lettera rossa con la scritta gialla che stona con i suoi colori accesi su quell'accessorio cupo. Sembra quasi una macchia di sangue. Spengo la luce che li illumina e mi siedo sul divano accanto al mio amico. Io e Ivan ci siamo conosciuti quattro anni fa a lavoro. Eravamo entrambi lontani da casa e con poche conoscenze e così il nostro legame è divenuto importante. Credo sia l'unica persona di cui mi fido e non sono arrogante nell'affermare che per lui sia lo stesso. Siamo dei tipi solitari e diffidenti, insieme ci completiamo in un certo senso. Si tortura i suoi capelli biondi con le mani mentre lo sguardo stanco e vuoto resta in attesa del momento in cui le prime immagini ci verranno mostrate. Mi lascio ipnotizzare anche io dallo schermo mentre rifletto su quello che mi aspetta.

«Mi è sembrato di vedere qualcosa sul tuo tavolo, cos'era?»

Resto in silenzio un attimo, i nostri visi illuminati dal film. «La mia divisa.»

«Quindi partirai.» Non è una domanda ovviamente è solo una constatazione.

«Non ho scelta, lo sai. Ci siamo scelti una nazione complicata.» Sento i suoi occhi bruciarmi la guancia. C'è stato un momento in cui avevamo pensato di lasciare la Russia. Non ricordo bene dove volessimo andare, ma ci stava stretto questo regime e volevamo la nostra libertà. Poi però siamo rimasti... troppo legati alle nostre radici.

«E Maria?» Già, non ho ancora avuto modo di aggiornarlo.

«Ci siamo lasciati. Era ormai stanca di me e io stanco di fingere.» Continuo a guardare avanti con le mani che stringono i muscoli delle mie cosce. In questo momento sento la sua mancanza, in maniera egoistica vorrei avere qualcuno che mi pensi mentre sarò via. Qualcuno che ci tenga a che io torni. Qualcuno da cui io stesso vorrei tornare. Mi renderebbe forse più leggera la situazione l'amore di Maria ma, ovviamente, non sarebbe giusto. Purtroppo, non la amo e questo non si può cambiare.

«Capisco.» Parla piano. «Hai fatto bene.» Ivan è un tipo scherzoso e allegro ma quella sua vivacità è completamente spenta al momento.

«Non mi dispiacerebbe qualche tua battutina al momento, sai.» Vorrei che qualcosa mi liberasse da questo peso. «Io non voglio andare in guerra.» Un lamento roco. Io non voglio temere di uccidere ne di essere ucciso.

«Mi spiace non mi viene proprio niente da dire. Se non che devi andare con la consapevolezza che puoi aiutare i civili. Se fai bene il tuo lavoro, le bombe centreranno solo obiettivi militari o vuoti.» Lo guardo per capire se sia certo di ciò che mi dice. «È così Ale. Ne sono certo.» Come a conferma delle sue parole le immagini di guerra appaiono sullo schermo. Le cinque sono ormai passate e le emittenti di tutto il mondo mostrano il primo attacco. L'aeroporto è stato colpito ma con questo anche delle abitazioni vicine. L'amaro mi riempie la bocca.

«È la CNN che vi parla ed è appena iniziata la campagna di liberazione russa. Ovviamente ci sono dei feriti, il mondo è stravolto da ciò che sta accadendo vi terremo informati lasciando questo canale con la diretta sull'Ucraina.» L'inglese concitato della telecronista non è un problema né per me né per Ivan, parliamo perfettamente altre tre lingue oltre alla nostra.

«Tu gli avresti impedito di colpire quelle case.» Sembra un discorso da bambino, la stessa innocenza nella sua fiducia ma è frutto della sua necessità di farmi sentire meglio.

«Cercherò di fare del mio meglio.» Ivan si alza e mi colpisce la spalla con una pacca.

«Sono certo che lo farai.» Si stiracchia mettendo il muto, per poi lanciare il telecomando sul divano. «Io vado, magari una di quelle aspetta anche me.» Un lieve sorriso inclina le nostre bocche senza sfiorare gli occhi che restano seri e preoccupati.

«Non avrebbero che farci con te.» Purtroppo non è vero. È vero il contrario sarebbe loro molto utile.

«Sempre egocentrico.» Mi prende in giro. «Tienimi aggiornato.»

«Anche tu.» Lo osservo chiudersi la porta dietro e mi sento sprofondare in quei cuscini. «Cazzo!» mi porto entrambe le mani al viso. «Cazzo!»

Con la Forza di un Carro ArmatoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora