Capitolo 11

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Anastasya

Aiuto Hanna a lavarsi, in realtà sono semplicemente in bagno con lei, mentre aspetto che finisca la doccia tenendole la gamba ingessata dentro un sacco bianco fuori dal box. Siamo ancora in ospedale ed è passata un'altra settimana dalla decisione di andare a Sarny. I genitori di Irina sono ben felici di ospitarci, anzi, posso dire che non vedono l'ora di saperci al sicuro. La loro è una delle poche città che non sono state attaccate. Kiev invece è sempre sotto attacco, sembra che da un momento all'altro possano conquistarla nonostante la resistenza, nonostante la propaganda politica, nonostante tutto. L'ospedale è sempre più pieno e la realtà fuori sempre peggiore. Per questo volevo andar via già una settimana fa, ma poi Hanna ha accusato capogiri e vomito e non me la sono sentita di partire con lei in quelle condizioni. Ora sta finalmente bene, il colorito è più roseo ha ripreso a mangiare con il suo solito appetito e io sono certa che non possiamo più rimandare il viaggio. Irina è andata a casa sua a prendere dei vestiti per tutti, dall'intimo ai giubbotti. Io non me la sono sentita. Solo al pensiero di vedere le macerie in cui è ridotta casa mia mi saliva la nausea. Forse un giorno avrò il coraggio di andare a recuperare qualcosa ma ora ho troppo vivido il ricordo di mio padre fra quei resti e di mia madre felice in cucina. Mi scosto i capelli dal viso, non ho tempo per pensare a questo.

«Hanna hai finito? Non c'è molta acqua calda a disposizione e devo ancora lavarmi io.» La rimprovero come un tempo è la solita egoista.

«Sto finendo, sei la solita lagna.» Mi fa eco. Avevo bisogno di riprendermi. «Ecco, è tutta per te.» Apre del tutto le ante della doccia e io l'aiuto ad alzarsi dalla sedia in cui era seduta per lavarsi. Non avevamo molta scelta per impedire al gesso di bagnarsi.

«Grazie. La solita principessa.» Le porgo l'accappatoio e mentre lei lo infila io la sostengo per la vita. In fondo non mi dispiace affatto quel battibeccare con lei è l'unico elemento di normalità in questa nuova realtà. Saltellando si siede sul letto e io prendo il fon per asciugarle i capelli biondi. Passo le mani fra quelle ciocche mentre lei fissa il pavimento bianco ai nostri piedi.

«Devo davvero indossare quella divisa rossa. Non posso averne una blu come la tua?» la solita bimba.

«Te l'ho già spiegato, sei più credibile come infermiera che come medico. Se ti dovessero chiedere qualcosa di tecnico non sapresti come rispondere.»

«Okay.» Sbuffa solleticandomi il fianco.

«Dai!» mi lamento sorridendo.

«Pensi che ce la faremo?» la sua voce preoccupata è per me una ferita, come vorrei evitarle tutto questo.

«Sì, ne sono certa. Dovremo solo essere pazienti e cercare di passare il più inosservate possibili.» Le continuo ad accarezzare quei lunghi capelli biondi cercando così di infonderle fiducia.

«Sono felice di averti accanto a me. Ho sempre creduto che tu potessi tutto.» Appoggia la fronte sulla mia pancia.

«Tutto no. Ma farò del mio meglio.» Le do' un bacio sul capo. «Ti voglio bene.»

«Anche io.» Mi risponde lei abbracciandomi stretta. Asciugo velocemente una lacrima.

«Fatto. Forza fatti aiutare a indossare la divisa.» La scosto leggermente e tra i suoi borbottio le passo i capi da indossare.

«Hai un elastico?» Le porgo quello che tengo sempre al polso.

«Ecco, usa questo.» A quel punto è il mio turno. Lei si distende sul letto e io corro in bagno a lavarmi. Irina starà per tornare e a quel punto andremo via. L'acqua è tiepida ma è la prima doccia dopo due settimane e mi sembra la migliore di sempre. Quando sciacquo i capelli è ormai gelata. Ho i denti che battono ma almeno sono pulita. Questo ospedale è comunque stata la nostra salvezza. Non ho idea di dove saremmo potute andare altrimenti.

Il tempo di asciugare i miei di capelli che la mia amica è già in stanza ad aspettarmi, mi porge l'intimo pulito e un maglione a collo alto da indossare sotto la divisa. Vedo che anche Hanna ne ha messo uno come anche Irina.

«Grazie.» Le dico debitrice mentre lei infila quelle poche cose che avevamo accumulato in ospedale in una sacca che ha portato da fuori.

«Allora si va.» Nel tono di voce di Irina c'è una certa trepidazione e la capisco, rivedrà i suoi genitori magari avessi la stessa fortuna.

«Sì, andiamo.» Faccio sedere Hanna su una sedia a rotelle che recupero in corridoio e dopo aver salutato i miei colleghi ci avventuriamo nel freddo di quella mattinata. Ho informato della mia partenza il mio responsabile il quale sembra aver accettato la mia necessità di portare al sicuro mia sorella. Spero solo che il giorno in cui potrò tornare al lavoro non sia troppo lontano.

Lascio con tristezza quel luogo è come se abbandonassi un altro pezzo di me, lasciando quel luogo.

«L'auto è da quella parte.» Irina ci fa strada fra le macchine posteggiate e quando raggiungiamo la meta, tiro un sospiro di sollievo, stiamo davvero andando via.

«Ho preso una cosa per voi.» Dal portaoggetti Irina tira fuori una fotografia e quando la gira verso me e Hanna non riesco a trattenere le lacrime, come anche mia sorella. Siamo noi insieme ai miei genitori il giorno della mia laurea, c'è anche Irina ecco perché ne aveva una copia.

«Grazie.» Ho la voce rotta e le mani che mi tremano mentre accarezzo quei visi che mi mancheranno da morire.

«Posso averla?» anche la voce di mia sorella è flebile.

«Certo.» Gliela porgo subito per poi invitare Irina ad andare. Non riesco più a sopportare quel momento nei ricordi. «Allora hai stampato la carta geografica chissà i telefoni dovessero abbandonarci.» Ho pensato anche a quello. È strano per noi che viviamo nella tecnologia pensare di non poter fare affidamento in essa.

«Sì, eccola.» Me la ritrovo in grembo è in bianco e nero e le strade che dobbiamo percorrere sono colorate di rosso.

«Bene. Andiamo.» Osservo la mia città ferita dei finestrini. Irina parla come suo solito a ruota libera mentre io e Hanna rimaniamo in silenzio. La sua voce è rassicurante e la interrompo solo quando devo indicarle il momento di girare.

Ben presto arriviamo presso il corridoio umanitario di cui abbiamo sentito parlare in tv. Una fila di auto aspetta il turno per passare, come anche una fila di persone a piedi che cercano di raggiungere i pullman che li porteranno non so bene dove.

Un po' di ansia mi fa mangiucchiare le unghie della mano destra. Delle camionette con bandiera russa sono schierate sul fianco della strada, mentre altre con bandiera ucraina sono vicine ai punti di uscita dalla città. Soldati di entrambi gli schieramenti, armati, guardano le persone sfilare e si percepisce la tensione per questo luogo di incontro forzato. L'odio negli occhi degli ucraini, la sfida in quelli russi. «Forse dovrei scendere a chiedere qualche informazione, che dici?» chiedo consiglio a Irina.

«Forse sì.» Anche lei non è molto sicura della sua risposta. «Ma non allontanarti molto.» Scendo dall'auto e mi avvicino alle persone che come noi vorrebbero andar via chiedendo loro informazioni, su quanto si dovrà aspettare.

Ed è in quel momento che una strana sensazione mi investe, non riesco a spiegarmi questa emozione e senza badare alla giovane mamma che mi sta parlando tenendo una bimba in braccio alzo lo sguardo verso i soldati. Mi guardo a destra e a sinistra in cerca non so neanche di cosa. Certamente non avrei mai potuto immaginare che presto qualcuno sarebbe entrato nella mia vita per sconvolgerla ancora di più.

Con la Forza di un Carro ArmatoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora