Capitolo 59

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Anastasya

È la seconda volta che esco con Roberto questo mese. Salgo le scale di casa e quando apro la porta mia sorella e seduta sul divano. Alza gli occhi ma non appena incontra i miei si rifugia nuovamente sulle immagini del film che stava vedendo in tv.

Vorrei fermarmi a guardare la storia con lei, come ho sempre fatto, ma questa situazione la infastidisce troppo e Hanna mi parla appena. Non abbiamo più preso il discorso di quella prima sera ma è ben chiaro che il non aver risposto alla sua proposta, come lei si aspettava, è stato come se io ammettessi che non mi importa nulla di quello che è stato e a nulla sono servite le mie parole.

Lei è giovane e l'unica cosa in cui crede sono i fatti, non può rendersi conto che nella vita reale l'amore non è come nei romanzi o nei film, non è facile, non è sempre giusto e purtroppo non trionfa sempre. E allora guidata io stessa da una certa irragionevolezza mi ritrovo a frequentare questo giovane ragazzo chiaramente interessato a me.

I giorni passano come le settimane e i mesi e il nostro rapporto è ormai una strana amicizia in cui una linea sottile mi protegge dall'errore più grande della mia vita.
Ma purtroppo, come spesso accade, non ci si ferma a riflettere bene sulle proprie azioni quando a motivarle sono sentimenti sbagliati come la rivalsa per ciò che non posso avere.

«Anastasya, ecco il tuo?» Roberto attira la mia attenzione sul signore alla cassa che mi passa il gelato che ho scelto. Il mio cono alla nocciola è rinfrescante in questa sera di settembre ancora abbastanza calda per apprezzare un gelato.

Stavamo passeggiando in centro e poi lui ha realizzato subito il piccolo desiderio che gli avevo confessato di avere avuto per tutto il giorno. Gli sorrido come una bambina mentre mi gusto il mio cono mentre lui assapora la sua coppetta ai frutti di bosco.

I capelli scuri sono gellati sul capo e non si muovono alla leggera brezza della sera, questa cosa mi fa sorridere.

«Che c'è?» I suoi occhi ridenti cercano i miei, in cerca di una spiegazione che non ho.

«Niente.» Scuoto la testa e continuo a mangiare.

«Non mi sembra, stai ridendo ancora.» Cerco di camuffare la mia risata riempiendomi la bocca di gelato e ora è lui a scoppiare a ridere.

Siamo seduti su di una panchina, in un parco ormai deserto. I suoi occhi non lasciano i miei e vedo la sua pupilla nera brillare sotto la luce dei lampioni.

«Sei così bella.» La sua mano corre al mio viso e io mi blocco con il cono a mezz'aria, sento il palato gelarsi mentre i miei occhi si sgranano impauriti. «Anastasya, io ho bisogno di...» Le sue parole si perdono nella notte, mentre il suo capo si avvicina al mio e la sua mano mi impedisce di allontanarmi.

Sento il fastidio crescere in me inesorabilmente. La rabbia contro me stessa e la situazione imbarazzante in cui mi sono cacciata. Mi rivolta lo stomaco. Sono una stupida. Non avrei mai dovuto arrivare a questo punto. Non avrei mai dovuto sottovalutare il suo interesse per me.

Il suo fiato che mi accarezza le guance è una tortura, non riesco a sopportare l'idea che lui possa baciarmi. Mi irrigidisco e porto la mano al suo polso nella speranza di fermarlo o di liberarmi. Stringo in cerca della sua reazione ma lui fraintende il mio gesto e preso dalla passione chiude gli occhi continuando lentamente a scendere su di me.

Il suo profumo mi avvolge, il buio della serata ci nasconde e io ancora una volta mi ritrovo a odiare quella notte che non mi è più amica da tanto tempo. Quando è ormai troppo vicino inclino indietro il capo in cerca di una distanza che lui subito cancella posando le sue labbra sulle mie.

Sono morbide mentre premono con forza sulla mia bocca e nonostante una parte di me provi a farsi piacere quello che sta accadendo, sento il mio corpo rifiutare quel gesto e quell'uomo. La mia mente che cerca di elaborare una veloce via di fuga. La pressione diminuisce e sento la sua lingua umida strusciare fra le mie labbra in cerca di un accesso che gli permetta di approfondire il bacio.

Resto ferma nella mia posizione, con gli occhi sbarrati e la preghiera che tutto finisca presto. Potrei parlare, ma ho paura di concedergli quella possibilità che lui cerca e allora aspetto che da solo si renda conto che non gradisco quel contatto.

Dopo un tempo che mi sembra infinito i suoi occhi si aprono nei miei e un velo di dispiacere ne oscura la lucentezza di poco prima. Si allontana permettendomi di respirare, apro la bocca senza emettere suono e sfuggo ora ai suoi occhi incollandoli al terreno davanti a me. La sua mano mi accarezza ancora il viso e il suo capo si poggia sul mio.

«Ecco, era questo quello che volevo capire.» Colpevole mi stringo il labbro fra i denti, rifiutando quel sapore che sento e che non volevo. «Speravo che avessi iniziato a provare qualcosa per me, ma sono certo di essermi sbagliato ora.» Sempre più dispiaciuta stringo il legno della panchina graffiandomi la mano.

«Mi dispiace Roberto.» Mormoro talmente piano che non sono certa mi abbia sentita.

«Non devi dispiacerti. Non puoi decidere chi amare.» Non ha idea di quanto sia vero.

«Ho provato a farlo con tutta me stessa.» Alzo il viso verso di lui. «Ti giuro che tu mi piaci e che ho tentato, avrei voluto innamorarmi di te. Sarebbe stato bello.» Gli poso la mano libera sulla gamba mentre l'altra è ormai sporca del gelato che sta colando via.

«Si, lo sarebbe stato.» Un sorriso triste si affaccia sul suo viso. «Anche di più.»

«Ma non ci riesco. Io non ci riesco.» Scoppio a piangere nascondendomi dietro i capelli sciolti che mi ricadono attorno al viso quando inclino il capo verso i miei piedi, ancora una volta.

«Non fare così. Io posso accettarlo. Sono anche disposto ad aspettare.» Queste parole aumentano i miei singhiozzi. Le sue braccia mi avvolgono nonostante rischi di sporcarsi e senza dire altro mi culla paziente mostrandomi fino a che punto tenga a me.

Mi sento così stupida a piangere fra le sue braccia per un uomo che non c'è più, almeno nella mia vita. Sono passati giorni, settimane, mesi ma quel sentimento non smette di esistere, tormentarmi e non riesco più a contenerlo.

Un suono mi riporta alla realtà. È una melodia ripetitiva e fastidiosa.

«Ana, è il tuo telefono.» Roberto parla piano in tono calmo, forse impaurito di una mia nuova crisi.

Mi allontano da lui ma con la mano imbrattata non posso rispondere. Mi alzo e getto il resto del cono nel cestino accanto alla fontanella a cui mi avvicino per sciacquare le mani. Roberto si alza e mi viene incontro, vedo in lui la lotta da cui è uscito sconfitto farlo trepidare, vorrebbe solo tornarsene a casa e non posso biasimarlo. Non credo potrà mai esserci una amicizia fra noi a queste condizioni.

Ripulita tiro fuori dalla borsa prima i fazzolettini per asciugarmi e poi infine prendo il telefono che ha ripreso a squillare. Il nome di Hanna lampeggia con insistenza e questo mi preoccupa. Allarmata rispondo premendo il tasto verde.

«Pronto, Hanna.» Cerco subito di capire se mia sorella sta bene.

«Anastasya, devi subito tornare a casa.» La sua voce è agitata. Se le fosse accaduto qualcosa io...

«Stai bene? Che è successo?» inizio a camminare avanti e indietro per la tensione.

«Ana, devi tornare. Ti prego è importante.» La supplica nel suo tono mi fa incamminare verso l'auto di Roberto posteggiata poco lontano.

«Ma tu rispondi, ti hanno fatto del male?» insisto, ora infastidita dal suo divagare.

«Non capisci Ana, lui è qui. Lui è qui.» Non riesco a capire di cosa parli con quelle poche parole per me sconnesse fra loro, ma faccio cenno a Roberto di dover tornare a casa mentre cerco di tranquillizzarla. «Sto arrivando, okay? Stai tranquilla.» La rassicuro prima di chiudere.

«Ma io sono tranquilla ora che Alexander è a Roma.» Mi blocco sul marciapiede con il telefono stretto in mano e la voce di mia sorella che riecheggia in quella notte che dopo tanto tempo credo essere nuovamente mia amica.

Con la Forza di un Carro ArmatoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora