Capitolo 8

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Aleksander

Alla fine la lettera l'ho aperta, conteneva la comunicazione ufficiale della mia partenza. Sono stato arruolato nuovamente e ovviamente non veniva chiesto il mio consenso. Due giorni mi sono stati dati e in un certo senso sono anche tanti, non ho persone da salutare, solo consegne di lavoro da passare ai mie colleghi.

Ho già preparato tutto e sono costretto a tornare a casa per prendere alcune cose. Speravo di non trovare nessuno ma Maria è in casa e mi viene ad aprire quando per gentilezza ho suonato anziché aprire con la mia chiave.

«Ciao.» I suoi occhi scuri sono animati dalla speranza.

«Ciao.» Io invece sono imbarazzato, mi passo la mano sul capo e avanzo in quella casa in cui non mi sento più a mio agio.

«Sei tornato?» restiamo a fissarci in piedi davanti la porta ormai chiusa. Lei indossa la sua solita tuta blu, la tiene sempre in casa e io non posso che ricordare le tante volte che gliel'ho tolta di dosso.

Porto le mani in tasca per non mostrarle l'agitazione. «Maria...» I suoi occhi si allargano è comunque una bellissima donna. «No. Io non sono tornato.» Sostengo il suo sguardo che ora si perde sul mio petto. «Mi dispiace. Io...»

«No. Tranquillo. Capisco.» Agitata si tira via dalla situazione tornando sul divano dove credo che fosse seduta visto il libro aperto e la tisana sul tavolinetto in mezzo alle sedute.

«Io dovrei prendere alcune cose.» Scendo la zip del giubotto imbottito e lo appendo all'attaccapanni.

«Fai pure.» Mi avvio verso la nostra stanza e sento dei passi leggeri seguirmi. Apro e chiudo cassetti e armadi tirando fuori qualche maglione pesante, un libro altri accessori personali e infine una foto dei miei genitori.

«Io ho sperato che...» La voce rotta mi giunge dalla porta dove è appoggiata con lo sguardo che mi segue nella stanza che abbiamo condiviso con amore. «Speravo che qualcosa potesse cambiare. Che tu ti rendessi conto... di cosa ho bisogno.» Chiudo gli occhi prima di tirarmi su e tornare a guardarla. Il letto di legno scuro oggi ci divide mentre un tempo ci ha uniti pieni di speranze. Porto le mani ai fianchi premendo la cintura di cuoio che sostiene i miei jeans blu scuro. «Io ti amo.»

Sospiro e per un momento valuto quella possibilità di avere qualcuno che mi aspetti al mio ritorno, che soffra con me di questa nuova avventura. «Maria io non sono più lo stesso uomo.» I suoi occhi si riempiono di lacrime che ben presto scivolano giù sul suo viso ma io resto fermo non posso consolarla, non è più compito mio. «Io non ho cambiato idea. Non ricambio i tuoi sentimenti e sono certo di non volere più farti soffrire.»

Lei annuisce portando le mani ai capelli. «Okay. Andrò via questa settimana. Il tempo di trovare un posto...»

«Non c'è fretta Maria...» Aldilà della partenza non voglio buttarla fuori di casa. Lei ha lasciato la sua quando abbiano iniziato la convivenza.

«Sì, c'è fretta. Devo andare avanti e sentire il tuo profumo ovunque non mi aiuta.» Non posso che darle ragione, farei la stessa cosa.

Torno a riempire la sacca che ho recuperato dall'armadio.

«Dove stai andando?» la sua voce è ancora flebile.

Stringo la sacca. «Sono stato arruolato. Partirò domani mattina.» Afferro qualcos'altro che non so neanche se mi servirà.

«No.» Il suo è quasi un urlo disperato. Non faccio in tempo a capire che me la ritrovo stretta a me. Le sue braccia mi avvolgono fino a stringere il mio maglione sulla schiena. Il suo capo sul mio petto. «Perché?» Ora singhiozza.

«È un ordine. Per il mio lavoro, per il mio passato, non lo so.» Alla fine la stringo anche io ne ho bisogno.

«Ti prego Aleksander giurami che tornerai. Giurami che tornerai vivo.» Il suo volto terrorizzato mi guarda dal basso, mi arriva a malappena al petto.

«Te lo prometto.» Mi lascio scappare. In fondo che male c'è. Sono stato chiaro sto parlando ad un'amica, ormai.

Le sue dita si graffiano con la mia barba è da due giorni che non mi raso. E prima che possa scansarmi le sue labbra si posano sulle mie. Il tepore di quella bocca a me familiare mi fa desiderare quel qualcosa in più che non c'è e preso dalla tensione di quei giorni approfondisco quel bacio. Con la mano sulla sua nuca spingo il suo capo più vicino lasciando unire anche le nostre lingue. Non c'è passione. È tutto sbagliato e solo un momento di conforto a cui non so dire di no. Le sue dita lasciano il mio viso e le sento ora spingere sotto la mia maglia fino ad accarezzare la mia pelle. Il suo fiato è ora accelerato e capisco che è arrivato il momento di interrompere quel momento prima di darle speranze che non ci sono. Un ultimo bacio a stampo e la allontano da me. Le accarezzo il capo e la guancia.

«Ti amo Aleksander. Io ti aspetterò.» Il suo sguardo è deciso e pieno d'amore.

«No, Maria. Non devi aspettarmi.» Lei scuote la testa. «Ascoltami. Devi andare avanti. Devi trovare qualcuno...»

«Ma io voglio te!»

«Tu andrai avanti. Comunque, quando tornerò ti verrò a salutare come amico.» Le sue lacrime bagnano il mio palmo che non si è allontanato dal suo viso.

«Ciao, Maria.» Le bacio il capo afferro la sacca e vado via. Devo ringraziarla. Il suo saluto mi ha fatto bene, perché come lei dovrà trovare la sua vita anche io tornerò per continuare la mia.

Il resto del giorno passa velocemente tra impegni lavorativi e istruzioni per l'imminente partenza. La notte non riesco a chiudere occhio. Mi giro e rigiro su quel letto senza pensare a niente in particolare o forse pensando a tutto in particolare. Ho pensato più volte di ubriacarmi per scordare tutto ma non sarebbe stato bello affrontare il primo giorno in quel dannato casino con i postumi di una sbronza.

Al mattino mi alzo presto non è ancora spuntato il sole. Con perfezione maniacale rado la mia barba. Passo quel rasoio su ogni millimetro di pelle in un silenzio irreale. Sembra quasi che il mondo si sia fermato e non sarebbe male scoprire che questa sensazione è vera. I miei occhi azzurri sono particolarmente scuri quasi blu. I capelli biondi sono ora rasati, si vede un leggero colore dorato sul mio capo. Il petto nudo si alza e abbassa lentamente anche il mio respiro è sospeso in quell'ultimo attimo di normalità. La cintura nera, dei pantaloni mimetici, sembra avvolgere la mia carnagione chiara e il mio essere. Sento la mia anima spegnersi della sua luce, non potrei sopravvivere altrimenti a quello che mi aspetta e quando indosso anche il resto della mia divisa il mio essere non esiste più. È un nuovo uomo: freddo e spietato, quello che mi osserva da quello specchio. Un uomo deciso a ritornare a casa.

Mi avvio lungo quella pista ben asfaltata, dove sono ben visibili i tanti cerchi di colore diverso disegnati per indicare il centro agli elicotteri che devono atterrare. Proprio in quel momento vengono azionate le pale del mezzo verde scuro che sostava davanti a me. Il vento mi fa andare indietro. Stringo il cappello di ordinanza e mi abbasso per giungere all'inizio della scaletta. Un uomo brizzolato, con tante medaglie al petto, mi attende. Lo saluto sbattendo fra loro i talloni e portando la mano al capo.

«Ingegnere Aleksander Petrov.» Stringo la mano all'uomo davanti a me. Mentre urlo per farmi sentire.

«Colonnello Smirlov, lei verrà in elicottero con me. Sa cosa deve fare?» Ricambia la stretta.

«Sì, signore.» So bene come funziona.

«Bene. Tra un'ora partiremo per Kiev. Si accomodi al suo posto.»

E così ebbe inizio il viaggio.

Con la Forza di un Carro ArmatoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora