Aleksander
Non ci si può abituare a quello che vedi una volta arrivato. I soldati avevano già iniziato l'avanzata verso Kiev e creato una postazione proprio ai confini con la città.
Di quei luoghi, che un tempo erano strade e coltivazioni di qualcosa, forse grano, mi colpì la solitudine e la devastazione. Intorno agli uomini che ora si riposavano al pallido sole di quella mattinata invernale, c'era solo neve sciolta, resti di auto bruciate e l'odore inconfondibile delle granate. Mi invitarono a entrare in una tenda rettangolare grande almeno quanto il mio ufficio. All'interno macchinari vari, un tavolo con sopra aperta una carta spiegazzata con la riproduzione in scala dell'Ucraina e in un altro tavolo, poco distante, quella di Kiev. Delle bandierine rosse con la falce e il martello indicavano le zone conquistate dal nostro esercito, con una x nera gli obiettivi da colpire e poi con delle linee sempre rosse le zone di avanzamento. Noi eravamo identificati come base Stella Madre. I simboli russi coprivano una piccola porzione di quelle terre.
La tenda verde e nera era illuminata da lampade a led e guardandomi attorno, con non poco disagio, potei vedere i vari rappresentanti dell'esercito con i loro lustrini ben visibili sulle giacche inamidate. Me ne stavo in silenzio con le mani unite dietro la schiena in attesa, mentre loro non badavano a me, troppo intenti a discutere intorno a quelle carte con un caffè in mano e qualche sigaro maleodorante.
Un insolito silenzio era calato da qualche minuto, niente più scoppi, solo il rumore degli aerei militari che sorvolavano a bassa quota la zona, non saprei dire se di fuoco amico o nemico. Fuori avevo intravisto qualche soldato, ma nessuna agitazione, forse era un momento di calma, come quello che cerco di raggiungere anche io controllando il respiro. Il mio cuore galoppa impaurito ma tento, spero non invano, di non mostrare altro se non freddezza e professionalità. In queste situazione è l'arma migliore. Gli uomini che mi stanno attorno sono militari, vivono per primeggiare e se ti classificano come debole sei un uomo morto, nella scala sociale scendi ai gradini dei sacrificabili e io non avevo nessuna intenzione di raggiungere quella soglia. Avrei mostrato la mia utilità, cosicché avrei avuto degli alleati nel mio intento di tornare a casa: vivo.
Il sole era ormai alto quando uscimmo con il colonnello Smirlov da quella tenda. I rumori degli attacchi erano ricominciati da un pezzo e io tentavo di non farci caso. Prima di raggiungere quella che sarebbe stata la mia tenda incrociammo il luogo adibito a ospedale. Diversi uomini feriti si intravedevano dalla grande entrata. Fasce piene di sangue e puzza di disinfettante si percepivano anche da fuori. Un uomo più maturo che capii essere il dottore e uno più giovane si affaccendavano a destra e sinistra, ma i lamenti non si placavano facendomi rabbrividire, si capiva che non eravamo attrezzati per tutto questo. Accelerai il passo che si era quasi fermato a quella vista, per tornare dal colonnello e dal capitano Belov che avevo appena conosciuto e che era colui con cui avrei collaborato.
«Troverà già montata parte della sua attrezzatura proprio qui in tenda.» Aveva appena terminato di parlare il capitano quando entrando avevo notato i macchinari vicino alla brandina. «Cosi avrà modo di lavorare tranquillamente. Le lascio il resto della mattinata per metterla in funzione, subito dopo pranzo, invece, verrà con me a fare un giro sulla città in elicottero. Tutto chiaro finora?» le informazioni erano state tante. Dall'orario di attacco, alla tattica intrapresa, luoghi, nomi, molti dati che si affollavano nella mia testa in cui l'unico pensiero era che volevo andare via.
«Chiaro.» Precisai subito, avevo bisogno di rimanere solo. Posai la sacca sulla brandina.
«Bene ingegnere. Il capitano è un ottimo militare si troverà bene e noi abbiamo la necessità di trovarci bene con lei. Le auguro di ambientarsi subito.» Il colonnello mi parla con tono serio, la sua voce vibra fierezza per la missione che gli è stata assegnata e io ricambio il suo sguardo con altrettanta convinzione. Ed ecco che, finalmente, con il saluto militare, entrambi escono da quella tenda spoglia e fredda. Un piccolo tavolo con una bottiglia d'acqua e dei bicchieri sopra, completa l'arredamento di quello spazio che ora sarà mio.
Ben presto mi adeguo ai nuovi ritmi, i volti dei militari non mi sono più estranei e non sussulto più ai rumori degli scontri. Le sirene di allarme che risuonano sulla città servono solo a dettare il tempo in quel luogo che sembra ora fermo. Ho portato con me una piccola radio che mi permette di sentire anche il punto di vista degli ucraini. Per il mondo veniamo descritti come folli, inesperti uomini al servizio di colui che ha perso completamente la testa. E per certi aspetti sono d'accordo con le loro interpretazioni tranne sul fatto che siamo inesperti. A combattere ci sono anche ragazzini questo è vero, ma gli uomini che li comandano, le armi che usano sono assolutamente il meglio che si possa trovare. Chi si trova qui, come me, senza la volontà di questa guerra si ritrova comunque a lottare per sopravvivere, non c'è soluzione, non c'è altra via se si vuole tornare a casa.
Cerco di farmi la barba in quel minuscolo specchio che ho portato con me. Sono nella tenda adibita a bagno e sento l'acqua che scorre gelata fare da sottofondo a qualche canzone stonata. Il mio viso è sempre più smunto, le occhiaie più evidenti e il mio fisico si è asciugato ulteriormente, questo anche grazie alle ore di palestra che faccio con i ragazzi. Seguo le loro esercitazioni anche con le armi, non ho intenzione di farmi trovare impreparato. La tuta è arrotolata sui miei fianchi, mentre il busto è coperto da una canottiera bianca. Ho cercato di ripulirmi anche io, è passata una settimana e mi sono obbligato a questa tortura. Sembra di lavarsi con la neve.
«Hai finito Alekasander, mi serve quell'aggeggio che hai portato.» Dimitri un uomo di due metri e Vasilii, il capitano che mi aveva accompagnato il primo giorno e che ora canta rompendoci i timpani, sono diventati i miei compagni di sventura e di bevuta. Avevi bisogno in quel luogo di trovare qualcuno di cui fidarti e noi c'eravamo trovati in questa miscellanea di uomini e pensieri. Tutti e tre ingegneri avevamo trovato subito di cosa parlare: dagli studi, alle esperienze, alla vita. Stare con loro aveva alleggerito queste due prime settimane.
«Dobbiamo andare agli accampamenti vicino i passaggi umanitari.» Vasilii si stava asciugando il capo a petto nudo e avanzava verso di noi con un asciugamano stretto in vita. Infilai il maglione nero a collo alto prima di rispondergli con un accenno del capo.
«Non mi dispiace affatto, ci sono belle ragazze da vedere in quei luoghi. Sono stufo di cazzi.» Dimitri era un tipo da tante parole ma di un'intelligenza acuta che mi faceva dimenticare quanto potesse essere superficiale a volte.
«Ma che cazzo dici?» Vasilii la pensava come me. «Dobbiamo pensare a portare i nostri culi a casa no alle fighe.» Aveva gettato l'asciugamano a terra e si stava vestendo.
«E che cazzo ho detto di male. Ho solo detto che guardo, mica sono un malato come Yari o Uliano.» Dimitri precisa subito la sua posizione e io sento stringere le nocche al solo pensiero. Purtroppo è vera anche la parte degli stupri. Animali che sfruttano la divisa per avvicinare donne indifese. Ne avevo aiutata qualcuna ma non potevo fare molto e neanche Vasilii. «Ho una splendida moglie che mi aspetta a casa, io.» Sottolinea visto che invece io e Vasilii siamo single.
«Non capisco, comunque, perché devo venire anche io.» Non mi piaceva viaggiare con la Jeep mi sentivo troppo scoperto e le cose non andavano bene da quelle parti. L'esercito ucraino stava rispondendo con coraggio per impedire la nostra avanzata.
«Perché vogliono che anche tu resti legato alla realtà. Vogliono invogliarti a fare il tuo, cazzo, di lavoro bene.» Nervoso infila i pantaloni e risponde alle mie lamentele.
«Non è certo colpa mia se non sanno tirare un cazzo di missile pilotato. Dovevano colpire un deposito e hanno colpito un ospedale, ma come cazzo si fa.» Non riesco ancora a dormirci la notte per quell'assurdo errore. Ho ricontrollato le mie indicazioni fino a perderci la vista ed erano giuste.
«Non pensarci più Ale, non è stata colpa tua.» Vasilii è sempre stato dalla mia parte anche quando hanno provato a dare la colpa a me.
«Già, non pensarci.» Che cazzata, sono morte persone per quella cosa insignificante a cui non dovrei pensare. Finisco di allacciarmi le stringhe degli anfibi. «Vi aspetto fuori.»
Esco nel gelo di questa primavera che non vuole arrivare. Guardo le tende e in lontananza un rivolo di fumo nero perdersi nel cielo da un punto imprecisato della città e non posso che sperare che abbiano centrato l'obiettivo.
«Andiamo...» I ragazzi escono poco dopo dalla tenda pronti e insieme ci avviamo alla Jeep.
Saltiamo su con qualche sbuffo.Non potevo sapere che quel giorno la mia vita sarebbe cambiata ancora.
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Con la Forza di un Carro Armato
RomanceAnastasya è una laureanda in medicina piena di sogni e di speranze. Ha appena finito la sua prima settimana all'ospedale di Kiev, la sua città ed è pronta a festeggiare con la sua famiglia il contratto a tempo indeterminato. Per realizzare il suo so...