1. Indifferente

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"Gli amici fanno in fretta a dirmi passerà
Ma sa di banalità, nella sua semplicità
Se parlo ancora di te, io parlo ancora di te
Ed è più forte di me, giuro è più forte di me
Sarai il metro di paragone ora che non ci sei
Mentre sorrido a lei, e faccio finta che sia tutto ok

Raige

Paulo

«Paulo?» chiese Federico, tornando in camera.

Mi aveva anche invitato a fare una nuotata con lui nella piscina dell'hotel in cui alloggiavamo ma avevo di gran lunga preferito buttarmi sul letto, capace di accogliermi a braccia aperte.

«Paulito, svegliati.» continuò.
Affondai di più la testa nel cuscino, lo conoscevo già troppo bene: sarebbe entrato in camera chiamandomi, avrebbe lasciato cellulare, chiavi e quant'altro sulla console vicino alla porta, sarebbe passato per il bagno a sistemarsi i capelli e solo in seguito avrebbe controllato l'entità del mio stato comatoso.
Come da copione, borbottò qualcosa, camminò un paio di volte davanti al suo letto, vagando in cerca del beauty-case e, trovatolo, si piazzò davanti allo specchio.

«Argentino del mio cuore, andiamo in Duomo a fare un giro?»
«Non chiamarmi così...» sbuffai.
«Ah, allora sei vivo. Pensavo fossi passato nel mondo dei più in cerca di una miglior vita.»

Mi tirai le coperte fin sopra la testa, dopotutto era ancora novembre e Milano vantava una temperatura di pochissimo superiore allo zero. Era quel periodo fantastico in cui nessuno sarebbe voluto uscire dal letto, se non per cause di forza maggiore, di solito chiamate "Federico". Quest'ultimo mi prese per un piede ed in men che non si dica mi ritrovai fuori dal letto, con il mio amabile culetto spiaccicato sul tappeto.

«Che palle.» sbuffai.
«Dai, andiamo a fare un giro in Duomo.»
«Ma fa freddo.»
«Ci vestiamo.»
«C'è gente.»
«Chissà che gran problema...»
«Ho sonno.»
«Hai appena dormito. Un'altra scusa inutile?»
«Antonella?» domandai.
«Quelli sono problemi tuoi.»
«Non la voglio incontrare.» mi lagnai.

«Paulo. Cos'hai che non va?» mi chiese, incamminandosi verso la porta.
«Hai le chiavi?» sviai il discorso, mentre mi accingevo a seguirlo.
«Sì. Le tengo io, così non mi abbandoni come l'altra volta.» sorrise ed io scoppiai a ridere, ripensando a quando me l'ero data a gambe levate dopo essermi mescolato tra la folla della metropolitana.

«Cosa c'è che non va?» chiese di nuovo.
«Niente...»
«Fissi il vuoto da dieci minuti.»

Distolsi lo sguardo dal nulla che osservavo.

«Non lo so...» sbuffai. «È tipo quando stai male a caso, hai mille cose per la testa e in più ti devi preoccupare dei giornalisti, che ti seguono manco fossi la Regina Elisabetta, pronti a darti addosso per ogni minima cosa. Dici una cosa sbagliata e scoppia un putiferio...»
«È un momento no, passerà.» mi scompigliò i capelli, che cercavo di sistemare sotto ad un cappellino blu scuro. «Piuttosto, non devi trovare una sostituta di Antonella?» chiese, sorridendo maliziosamente.
«Ma anche no.»
«È evidente la necessità di una presenza femminile all'interno della tua vita.»
«Sei il mio psicologo?»
«Gne-gne. Andiamo!»

Mi trascinò giù dalla metro, poi salimmo di corsa le scale grigie.

«Bionda o mora?»
«Indifferente.»
«Italiana?»
«Indifferente.»
«Stare al gioco non ti salverà.» concluse, scegliendo di sedersi in un bar dalle ampie vetrate vicino a Piazza Duomo.

Il trentatré borbottava commenti partoriti dalla sua fantasia, come se stesse recitando il Rosario, mentre io, annoiato, scrollavo la homepage di Instagram, in cerca di qualche post interessante.

«Quella là, vestita di rosa, vicino al terzo piccione a destra del cestino?»
«Ma se non l'hai neanche vista in faccia!»
«Ha un bel fondoschiena.» disse, scrollando le spalle.
«Magari sembra una foca, come la sua amica...» commentai.
«Le foche sono animali carini.»
«Finché stanno a casa loro.» sbuffai.

Mezzo stravaccato sul tavolo, guardavo di sbieco il Carrarese, seguendo svogliatamente il suo indice che si spostava sulla gente.

«Trovata!» urlò.

Lasciò una banconota da venti euro sul tavolino e scattò in piedi.

«Fede...»
«Muovi il deretano.» sbottò, iniziando a correre.
«Perché ti seguo?» domandai, retorico.
«Perché sono il tuo compagno di squadra preferito.»
«No, perché io sono stupido.»
«Anche. Muoviti che la tua tipa se ne va.»
«Non è la mia tipa!»

Scosse la testa e mi prese per un polso, accelerando la corsa.
«Mi fai cadere!» lo rimproverai.
«Dettagli.»
«Posso almeno sapere quale sia?»
«No.» rispose, zigzagando tra la gente che, allibita, rimaneva ferma a guardarci.

«Mi stai bloccando la circolazione.» borbottai.
Mi guadagnai un'occhiataccia e, per poco, non mi scontrai con Federico, fermatosi al centro del marciapiede.

«Quella.» indicò una ragazza alla fermata dell'autobus.

Riparata da una giacca a vento azzurra, fasciata da un paio di pantaloni neri della tuta, ci aveva costretti a correre per un quarto d'ora. Senza troppo entusiasmo aveva lasciato cadere sull'asfalto un borsone scuro, su cui si era seduta, prima di fermare con un piede il pallone da calcio consunto che portava con sé e sciogliersi la coda, ormai sfatta, di capelli umidi e biondissimi.

«Ti sei imbambolato?»
«No, è solo che...»
«Il grande Federico non sbaglia mai!» mi interruppe.
Gli diedi uno scappellotto sulla nuca, senza staccare gli occhi dalla biondina.

Un ragazzo le si avvicinò, esitante.
«Mi faresti un autografo?» le chiese.

Lei sembrò risvegliarsi dallo stato di trance in cui era caduta e, alzatasi, gli rispose affermativamente.
«Hai un pezzo di carta?» continuò.

«Ha una bella voce.» commentò il Carrarese.
«Santo cielo.» commentai io, nei confronti del mio compagno di squadra, battendomi una mano sulla faccia.

«Voglio farmi un tatuaggio.» rispose il ragazzo.
Si sollevò di poco la manica della felpa, scoprendo il polso, e le diede un pennarello. Contrattarono sulla dimensione, poi lei scarabocchiò qualcosa sulla pelle chiara.
«Taggami quando l'hai fatto che ti seguo su Instagram.»
«Ok.» acconsentì lui, prima di abbracciarla. «Sii forte. Sempre.»
«Sempre.» rispose lei, sorridendo appena.

Da Milano col palloneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora