7. Periodo di... período

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"Cadere e poi rialzarsi,
Piangere e poi sorridere,
Tu l'hai chiamata sofferenza,
Io lo chiamo vivere„

Emis Killa

Paulo

Entrammo nel bar dell'altra volta, perché era pressoché vuoto e quindi decisamente tranquillo.

«Ciao ragazzi, che cosa prendete?»
«Ciao, un espresso con panna e... un cappuccino?» chiese Velia, guardandomi, per avere conferma di ciò che aveva detto.
«Come fai a saperlo?»
«Antonella.» mi spiegò, con una scrollata di spalle.

Ci sedemmo ad un tavolino defilato, vicino ad un grande termosifone, utile più che mai dopo tutta l'acqua che ci aveva investiti.

«Allora, sei pronto a sentire la storia più assurda di sempre?» chiese, con tono trionfale.
«Perché non mi sembra una cosa positiva?» domandai, in tutta risposta.
«Forse perché non la è? Ok... era Giugno 2014, l'ultima partita del campionato. Era decisiva e avevo il ciclo... período e, nonostante tutto, avrei dovuto giocare per forza.»
«Che schifo!» la interruppi.

«È importante, altrimenti crolla tutto!» sorrise. «Ora, non so quanto tu sia istruito riguardo gli assorbenti... tampones
«Abbastanza. Antonella è stata decisamente chiara su quali comprarle.»
«Ottimo, santa donna. Comunque, giocavamo fuori casa e la divisa della trasferta aveva i pantaloncini bianchi.»
«Ti sei sporcata?» risi.
«No! Ti pare? Magari fosse successo... assorbente interno e via, doppietta, scudetto, miglior marcatrice.»

«Ed io cosa ci facevo ancora a Palermo?» borbottai.
«Mah.» commentò. «Qualche giorno dopo iniziarono i problemi. Non stavo benissimo ma neanche tanto male da andare dal medico, avevo deciso di aspettare e vedere...»

Prese una cucchiaiata di panna dalla tazza di vetro che aveva davanti.

«Davo la colpa al período, allo stress per l'università e ad altre mille cose.»
«Il período è la vostra scusa per qualunque cosa.» la interruppi.
«Ovvio. Ha un potere disuasivo enorme su di voi. Non capisco come ma fa sempre effetto.»
«Credo che sia semplicemente strano da immaginare... del sangue lì sotto... boh.»

«Già, probabile. Mio fratello era a Barcellona per il mondiale, i miei in vacanza. Un bel giorno Mauro fece irruzione a casa mia e si lamentò che il mio malessere durasse da troppo tempo. Mi portò in ospedale e scoprii che l'assorbente aveva fatto infezione per una qualche sostanza strana al suo interno. Choc tossico.»
«Mauro Icardi?»
«Lui. Ringrazio Dio ancora oggi di averlo conosciuto...»

Abbassò lo sguardo sulla tazza di caffè ormai vuota.

«Avevo una febbre altissima e, per non farmi mancare nulla, vomitavo a più non posso.»
«E?»

Abbassò gli occhi sul tovagliolino che aveva davanti, piegandone un angolo.

«Andiamo in bagno.» sussurrò.

Entrammo nel bagno dei disabili, lei chiuse la porta a chiave dietro di sé ed iniziò a togliersi i pantaloni.

«Velia...»
«Ho fatto la pubblicità a diversi brand di mutande. Se avessi guardato la tv invece che Antonella mi avresti vista.» ammiccò. «E poi è quasi come essere in costume, no?» sorrise. «La gamba destra aveva iniziato ad andarmi in cancrena. Me l'hanno amputata, una spanna sotto al ginocchio.»

Mi fissò negli occhi, come a volermi scavare dentro.

«Non guardarmi così, non provare pietà per me. È ok, credo.» sussurrò.

Abbassai lo sguardo.

«Scusa. Non avrei dovuto trascinarti con me, spingerti a parlare, farti ricordare... ok, dubito che ogni tanto te ne scordi, dovendoci convivere e... basta, sto dicendo delle stupidate.»
«Probabile.» sorrise.

«Non volevo farti male.»
«Non potevi saperlo.»

Poggiai la fronte contro la sua e sospirai.

«Devo sempre rovinare tutto, tu sei così... Velia. Non lo so, non trovo una parola per descriverti.» sussurrai, sulle sue labbra.

«Ripetilo.»
«Cosa?»
«Velia.»
«Velia.» scandii.

Storpiavo il suo nome in un modo indicibile, quasi senza accorgermene. Sostituivo la "v" con una sorta di "b" e, di conseguenza, pronunciavo in maniera diversa tutte le altre lettere.

«Paulo, va tutto bene, va bene così. Tanto un giorno l'avresti scoperto lo stesso, anche solo cercando il mio nome su internet.» sospirò, mentre un paio di lacrime sfuggivano al suo controllo.
«Ti voglio bene.» le sussurrai, abbracciandola.

Si lasciò andare ad un pianto liberatorio, dopo essersi sollevata il collo della felpa per nascondervi la faccia.

«Scusa, io... scusa. Sono schifosamente debole e faccio fatica ad accettarlo. I medici mi dicevano di stare tranquilla, che tanto sarei guarita, che sarei tornata più forte di prima... ed io, mi illudevo, come una povera stupida, credevo che tutto sarebbe... passato.» singhiozzò, strofinandosi le maniche della felpa sulle guance.

«Vorrei essere io debole come te, affondare per poi rincominciare da zero...» le accarezzai la testa. «Sei forte, Velia, devi essere forte, per te e per quelli che credono in te.»
«Sono passati tre anni, tre maledettissimi anni ed io sono ancora qui a piangermi addosso!»

Abbassai lo sguardo sulla mia maglietta umida.

«In realtà stai piangendo addosso a me...» la corressi, quasi involontariamente, cosa che le fece spuntare un sorriso.

La baciai piano, guardandola negli occhi. Io ci sarei stato, nonostante tutto.

Ciò che è successo a Velia non è un "incidente" di mia invenzione.
Velia doveva stare male prima ancora che iniziasse la vicenda, doveva avere in un certo senso accettato il suo destino, perché ritengo che la nostra società sia troppo legata ai pregiudizi, che possono essere "sopportati" solo dopo che ci siamo costruiti un'armatura dietro cui ripararci.
Qualche anno fa ho letto la storia di una certa Lauren Wasser, modella, che ha dovuto subire l'amputazione di entrambe le gambe per la sindrome da choc tossico (TSS) e ne sono rimasta particolarmente colpita, in senso negativo, ovviamente.
E se prevenire è meglio che curare, in fondo, l'informazione non può che fare bene. Leggete quello che le è successo, se vi va, perché spesso siamo più fortunate di quanto pensiamo.

Grazie, di tutto.

Da Milano col palloneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora