41. Pena (d'amore?)

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"Dicono che non capisci il valore di qualcuno fino a quando non l'hai perso
Tu non capiresti lo stesso, quindi non dirlo nemmeno per scherzo„

Shade

Velia

Paulo avanzava a piccoli passi verso di me: avevo notato che, in presenza di Lewis, la sua attenzione era quasi interamente dedicata al pilota e che io ricoprivo solo un ruolo marginale all'interno del suo campo visivo.

Gli andai incontro con la carrozzina, chiarendo subito un paio di cose: «Scusa per prima, Lewis mi ha aiutata ad arrivare fin qui. È tutto strano, devo imparare a vivere di nuovo. Ti avverto subito, però: adesso non metterti a dirmi "come ti trovo bene, sai che ti sei ripresa alla grande?" o cose simili.» sospirai. «Dimmi quello che ti passa per la testa, quello che ti viene in mente. Se ti faccio pena, torna da dove sei venuto.»

Paulo esitò, come se avesse voluto dire qualcosa che non disse, limitandosi a deglutire.

«Posso... abbracciarti?» chiese, poco dopo.
«Certo che puoi.» sorrisi. «Non ti mangio mica.»

Paulo si avvicinò esitante e, piano piano, mi strinse a sé.

«Mi sei mancata.» sussurrò.
«Anche tu. Tanto.» gli risposi, appoggiando il mento sulla sua spalla.

Mi era mancato il suo profumo, i suoi capelli umidi dopo una partita, il senso di protezione che solo le sue braccia sapevano darmi...

«Paulo, non piangere.» gli dissi, quando sentii un paio di lacrime scivolarmi sulla schiena. «Eri stato zitto, prima, e chi tace acconsente. Non ti avrei fatto pena...»

Si staccò lentamente ed appoggiò la fronte contro la mia, sospirando.

«Sono solo contento, Velia, sono stati due mesi d'Inferno, ho avuto paura che non ci vedessimo più, che non ci parlassimo più...» sussurrò, guardandomi negli occhi. «Non posso perdere anche te.»
«Sono qua. Sono qua, Paulo, non vado via. Ci sono ancora, ci siamo ancora.»

«Quando ti sono venuta a prendere in ospedale mi hai insultata perché dopo due orette in quel manicomio ero già stanca, con lui, invece, "ci sono ci siamo, ti amo ti amo". Io sono offesissima!» mi fece il verso Linda, colpendomi sulla nuca con un leggero schiaffo.

«Oh, non si maltrattano gli invalidi!» la rimproverai, divertita. «Posso sempre investirti con il mio mezzo potente.» sorrisi. «E ti ricordo che abbiamo un tratto in discesa per uscire da qui.»
«Fede, l'hai sentita? Difendimi!» si lamentò.

«Io? Al massimo te la spingo addosso.» ammiccò in mia direzione il Carrarese.
«Ragazzi, prima di investirvi, venite a cena che Gonzalo ha fame ed il Mister si lamenta della vostra lentezza?» ci interruppe Mario, decisamente seccato.

«Dobra večer, Mr No Good. (Buonasera, Mr No Good.)» lo salutai, in Croato.
«Znaš hrvatski? (Parli Croato?)» chiese lui, sorpreso.

«Malo. (Poco.)» risposi. «Ivan e Marcelo stanno cercando di insegnarmi qualcosa ma non credo che sia la loro vocazione: in due mesi ho imparato a dire "lijepa sam" (sono bella), "šesnaest" (sedici), "imam dvadeset četiri godine" (ho ventiquattro anni) e a contare fino a cinque.»

«No good.» commentò. «Davvero. Giocano in una squadra scarsa e sono degli insegnanti scarsi. Dovresti rivolgerti a persone di un certo livello, tipo me, per intraprendere un corso di Croato. Comunque, andiamo a mangiare?»

**********

«Pau, mi passi il telefono che l'ho lasciato sul tavolino, per favore?» gli chiesi, sistemandomi meglio un cuscino dietro la testa.

«Tieni.» me lo porse. «Vado a lavarmi i denti e a mettermi il pigiama.»
«Tu non dormi con il pigiama.» obiettai.

«Però devo cambiarmi le mutande. O vuoi farlo tu?» ammiccò, un sorriso sornione.
«Ezechiele!» gli urlai dietro, mentre lui si chiudeva la porta del bagno alle spalle.

Sbloccai il cellulare ed iniziai un FaceTime con Mauro: era giunta l'ora che gli parlassi seriamente, dopo l'ultima litigata non avevamo più intrattenuto conversazioni di nessun genere né ci eravamo incontrati.

«Mauro...» esordii, quando, dopo più tempo del previsto, l'Argentino mi rispose. «Possiamo parlare?»
«Tu» mi indicò «vuoi parlare con me? Che bella battuta.» rise, sarcastico.

«Mi dispiace per quello che ho fatto. Solo, non sapevo cosa dire dopo...» cercai di giustificarmi.
«Sei perdonata.» sciorinò subito.

«Cosa?! Mauro, sul serio, mi dispiace, sono stata una pessima amica, avrei dovuto chiamarti prima, scusarmi prima, tu vieni prima ed io sono solo una povera illusa che spera di poter sistemare tutto con una stupida chiamata.»

«Sei perdonata. Ora puoi tornare dal tuo ragazzo e smettere di perdere tempo.»

Tacqui per un secondo: mi aveva ferita e lo sapeva bene.

«Non sto perdendo tempo.» sussurrai, con voce flebile.
«Hai aspettato quattro settimane a scusarti. Aspettare di tornare a Milano non ti sconvolgerà la vita.»

Chiusi gli occhi e mandai giù quel grandissimo groppo che mi si era formato in gola. Paulo aprì la porta del bagno e si venne a sedere vicino a me, ma lo ignorai.

«Mauro, ho sbagliato e non mi vergogno a dirtelo, solo... sappi che ti voglio bene, qualunque cosa tu decida di fare.»
«C'è il tuo ragazzo che ti aspetta.»
«Sto parlando con te, non con lui. Buonanotte, Capitano.»

Il suo sguardo cadde sulla mia maglietta, che in realtà era sua. Apparentemente non espresse alcuna emozione, ma io sapevo leggere troppo bene i suoi occhi ed avevo colto quel lampo di orgoglio che li aveva attraversati. «Ci vediamo a Milano, Velia.»

Da Milano col palloneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora