43. Camminata assistita

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"Anche se non guardo so che mi prenderai al volo„

Baby K

Velia

Ero già sveglia da un po' quando Paulo, che evidentemente aveva più sonno di me, sbadigliò in modo rumoroso, mentre si strofinava gli occhi con le mani. Fece per alzarsi ma strinsi le braccia intorno alla sua vita, ritrascinandolo sul letto.

«Resta ancora cinque minuti. Tanto tra poco passano con la colazione.» borbottai, tra i suoi capelli.
«Sei sveglia.» constatò.
«Tu dici?» lo sfottei.

«Gne gne gne.» mi fece il verso, baciandomi. «Buenos dias, pequeña
«Buongiorno, Ezechiele.» gli accarezzai il viso.

Condivisi con lui il pacchetto di biscotti secchi che mi avevano portato per colazione, mentre gli lasciai volentieri quella sbobba torbida, marroncina, che solevano chiamare caffè, ma che del caffè non aveva proprio niente.

«Allora, Velia, pronta?» mi domandò la dottoressa che mi aveva seguita anche dopo il primo infortunio.
«Oh, certo. Io sono nata pronta.» sorrisi.

«Dai dai che oggi hai anche un pubblico speciale.» alluse a Paulo il quale, più agitato di me, faceva avanti e indietro per la stanza.

La dottoressa spinse la mia carrozzina in una specie di corridoio, stretto tra due balaustre, ed annunciò solennemente: «Ecco, le tue nuove gambe!»

Osservai le protesi, due tubi infilati in due scarpe da ginnastica.

«Come quattro anni fa.» sorrisi, ironica.
«Ma quattro anni fa non c'ero io.» commentò allora Paulo, malizioso.

«Il tuo fidanzato dell'epoca era un danno vivente.» gli diede man forte la dottoressa.
«Belle le persone di cui mi circondo...» borbottai.

La donna allargò le alette attaccate ai bordi della calotta della protesi, inserì il moncone della gamba e poi, con delle cinghie speciali, fissò l'arto artificiale a quello naturale, mentre io eseguivo la stessa operazione dall'altra parte.

«Come ti senti? Ti fanno male?»
«No.» risposi, concentrata.
Paulo mi guardava, attento.

«Su, ti ricordi come si fa?»
«Vorrei potermelo dimenticare.» risposi, mettendo un piede sul pavimento, con la stessa prudenza del primo uomo sulla Luna.

«Sembri sulle uova.» ridacchiò Paulo.
«Sì, pronta a fare la frittata.» gli diedi retta, appoggiando anche l'altro piede.

Feci forza sulle gambe e mi misi in piedi, senza mai staccare le mani dalla balaustra. Restai immobile, come in attesa di qualcosa.

Tre mesi, tre lunghissimi mesi.

«Tutto bene?» chiese la dottoressa.
«A parte il fatto che mi sento uno struzzo sui trampoli, tutto bene.»
«Prova a camminare, tenendoti alla balaustra.»

Avanzai di qualche passo, traballante.
Mi fermai, poi ripartii.
Arrivai fino alla fine del corrimano.

«Bene. Ora torna, senza tenerti.»
«No...» risposi, titubante.
«Magari stavolta non cadi.» ridacchiò lei.
«Dai!» mi lamentai.

Ruotai su me stessa di centottanta gradi, staccai una mano dalla balaustra, feci un paio di passi e staccai anche l'altra. Ondeggiai come una banderuola colpita dal vento e, per mantenere l'equilibrio, provai a muovere un altro passo ma, prima di accorgermene, mi trovai per terra.

«Ah-ah!» esclamò lei, prendendosi gioco di me.
«Uffa.» sbuffai, con un tono bambinesco.
«Tu, giovanotto, aiuta la signorina a rialzarsi.» indicò Paulo, con l'aria di chi la sapeva lunga.

«Già con un trampolo solo era difficile, con due è praticamente impossibile al primo colpo.» borbottai, dopo aver ringraziato il mio ragazzo. «Sembra di stare su uno di quei ponti di corda dei parchi avventura.»

«Dai, ponte traballante, siediti cinque minuti che ti riposi e poi rincominciamo.»
«O che tu vai a prenderti il caffè?»
«Nessuno lo nega.» ammiccò lei, mente scompariva dietro l'angolo.

«È bello vederti in piedi.» commentò Paulo, staccandosi dalla parete alla quale era appoggiato.
«Stai lì.» lo intimai.

Mi alzai dalla panchina metallica e, piano piano, mossi alcuni passi incerti verso di lui.

«Mi sembra di essere con Dolores quando doveva imparare a camminare.» commentò, sorridendo.
«Vedi di prendermi, Argentino, che di ginocchiate per terra ne tirerò un sacco nei prossimi giorni.»

«Pensi che ti lascerei cadere?» domandò, abbracciandomi. «Allora non hai capito proprio niente.» scosse la testa.

«Magari sei una schiappa con i riflessi.» lo stuzzicai.
«Però sei qui con questa schiappa ad apprendere l'arte del ben camminare.»

Mi prese per mano ed iniziammo a fare, lentamente, avanti e indietro.

«Questo offre il mercato, mi devo accontentare.» sorrisi. «Ma ti va di lusso che io non sia una persona schizzinosa.»
«Nah, hai dei gusti fantastici. D'altronde, per aver scelto uno come me...»

«Su, piccioncini con la camminata assistita, venite qua. Senza tenervi per mano.»
«Mi piace non avere la camminata autonoma se c'è lui con me.» mi lamentai.

«Uh, ragazzo mio, questa è cotta a puntino.»
«L'ho notato.» commentò Paulo. «Ma forse anche io lo sono. In fondo non è bello così?»
«È la cosa più bella.» gli rispose lei.

Tornammo fino alla panchina, una di fianco all'altro, concentrati sui miei passi.

«Ti fa male qualcosa?» mi chiese la dottoressa, apprensiva, una volta arrivata alla panchina.
«Questa protesi stringe più di quella.» spiegai. «In questo punto mi dà fastidio.» indicai una parte decisamente arrossata del moncone.
«Perfetto. Il dolore è nostro amico quando ci insegna cosa fare, Velia, ricordalo sempre.»

Da Milano col palloneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora