34. Ho paura

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Valentino

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Valentino

«Velia...» sussurrai, quasi grato al cielo di ricevere una chiamata da mia sorella: il fatto che non rispondesse a nessuno da così tanto tempo era abbastanza preoccupante.

«Vale... Vale...» biascicò, prima di scoppiare in un pianto disperato.

«Vel, cosa sta succedendo?»

«Il treno è deragliato, il mio vagone si è accartocciato, ho una gamba incastrata nella lamiera. La motrice ha preso fuoco dopo essersi schiantata contro un camion che trasportava liquido infiammabile, respiriamo solo perché c'è vento.» tirò su con il naso.

Scivolai contro la porta della camera fino a sedermi sul pavimento.

«Dove sei?»
«In mezzo al nulla. È buio, non ne ho idea. Mi fa male tutto, sono senza giacca e fa un freddo assassino.» sospirò. «Vale, ho paura.»

Mi passai una mano tra i capelli.

«Il fuoco cosa fa?»
«Viene verso di noi, è passato al secondo vagone. Spero che stia bruciando così in fretta solo perché quella parte è entrata in contatto con la cisterna. Il mio vagone è l'ultimo, dondola, siamo su una sorta di ponte. Potrebbe venire giù tutto. Moriremo, o per l'impatto con il suolo o carbonizzati. Sono troppo giovane per morire.» piagnucolò.

«Non riesci ad uscire?» domandai, quasi a volermi convincere che mia sorella stesse scherzando, nonostante piangesse a dirotto tra una frase e l'altra.

«No. Sono incastrata, penso di avere un piede sotto un sedile. È la protesi, non arrivo a toglierla. Vale... sto troppo bene per morire.» sussurrò.

Chiusi gli occhi per un momento, cercando di ignorare quella sensazione di disagio immensa che aveva preso posto nel mio petto dall'inizio della conversazione.

«Ti voglio bene, sei il fratello migliore del mondo.»
«Lo sarei se avessi modo di aiutarti, così no.»
«È questo il punto, non hai modo di aiutarmi.» singhiozzò. «Solo Dio può farlo.»

«Velia, che cazzo faccio senza di te? Ci pensi un secondo? Come ho fatto a fare finta che andasse sempre tutto bene, a scuola, con i nostri genitori, con nostro figlio, all'università, con i giornalisti? Non sei da sola a questo mondo, non puoi dire che sì, sei incastrata in un treno e quindi non provi nemmeno ad uscire perché tanto, alla fine, muori tu. Ti sembra normale?» la rimproverai, con il fiato in gola per la paura che le sue previsioni si realizzassero.

«Devo ricordarti quanto siamo stati male il 23 ottobre del 2011?» continuai. «Quel maledetto 23 ottobre, quando Marco è morto davanti ai nostri occhi? Quando due moto da centinaia di chili lo hanno investito, senza che potesse fare niente? Pochi minuti, un caldo assassino e nessuna chance.» aggiunsi.

«Io mi ricordo. Abbiamo passato la notte a piangere. A piangere, abbracciati, sul letto scassato di un qualche hotel Malese. A diciassette anni. A migliaia di chilometri da casa. Insieme. Insieme.» sussurrai.

Anche lei si ricordava ed il fatto che non rispondesse ne era solo l'ennesima riprova. «Mal comune mezzo gaudio, no?» una risata isterica lasciò le mie labbra.

«Valentino.» mi interruppe.

«No, ora finisco. Non mi interessa se Dybala, tesoro della mamma, poverino, avrà una spalla su cui piangere. È già sopravvissuto 24 anni senza di te.» sputai. «24.»

«Io dovrò consolare Tommaso, fare finta di essere forte, ancora una volta, spiegargli le solite cazzate del tipo "la mamma ci guarda dal cielo come un angioletto" oppure "adesso sta sicuramente meglio, perché non so cosa ci sia dopo la morte ma, se nessuno è mai tornato, non dev'essere poi tanto male". Velia, apri gli occhi. Abbiamo una fottuta famiglia per colpa mia. Dove pensi che possa andare senza di te? Chi mi stirerà le camicie? Chi mi passerà gli appunti di Matematica? Tu hai una scelta. Trova un modo per uscire da quel vagone. Quando torni a casa ti porto a mangiare la pizza, vedi di muoverti.»

**********

Da soli trenta minuti io e Tommaso avevamo parcheggiato la nostra Ferrari California nei pressi dell'ospedale, eppure il colore indefinitamente smorto del corridoio in cui ci trovavamo, unito all'asetticità della struttura facevano di noi prodi cavalieri (non) pronti ad affrontare un'avventura quasi in una dimensione parallela, in cui il tempo sembrava non scorrere mai.

Ci aveva accolto un nerboruto agente in divisa che, dopo i soliti, inutili, convenevoli, era passato al dunque: il treno deragliato, l'incendio, Velia che per miracolo era riuscita ad uscire dal compartimento ma non abbastanza in fretta da sfuggire all'impatto con il suolo dovuto allo sganciarsi del vagone dalle restanti carrozze.

Il trasporto d'urgenza all'ospedale, le condizioni più che critiche, le prime notizie nelle mani della stampa.

L'amputazione dei due arti inferiori, rimasti schiacciati dalle lamiere, poco sotto le ginocchia.

Il coma farmacologico indotto, quell'equilibrio sottile tra la vita e la morte, che sarebbe dovuto essere un po' più vita che morte, secondo le parole dell'uomo in divisa.

«Puoi firmarmi un autografo?» chiese, alla fine del resoconto.
«Posso firmarti un autografo. Hai una penna?»

Scarabocchiai velocemente qualcosa di incomprensibile su un foglio di carta e glielo porsi, sperando che le ultime ore della mia vita si dissolvessero in un risveglio agitato, come alla fine di un brutto incubo.

Da Milano col palloneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora