PAROLE DURE MA VERE

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Ade

La sento armeggiare con le pentole e penso che stia preparando qualcosa per il pranzo. Non ho il coraggio di andare di là. Ma quand'è che sono diventato codardo? Ho sempre sfidato tutto, anche la morte! Ed invece ora mi ritrovo a nascondermi come un topo in fuga, per colpa di una ragazzina. Neanche fosse il pericolo in persona.

Lo sbattere delle pentole mi fa capire che è arrabbiata. Ma se proprio lei ha fissato la regola di goderci questo momento senza altre complicazioni? Poi sento il suo cellulare. Inizio seriamente ad odiare quella suoneria. Per ingannare il mio tempo e lasciarle sbollire la rabbia mi dedico a sistemare un po' il bagno. Metto le mie cuffie e faccio partite la musica. Con solo i pantaloncini e a torso nudo inizio le mie pulizie. Ma più di tutto sto scappando dall'ascoltare la telefonata, che sicuramente sarà con il cervo del suo fidanzato.

<Coglione!> esclamo.

Saranno forse più di dieci minuti che sto pulendo le stesse mattonelle e mi ritrovo come al solito a cantare come fossi da solo in casa. L'ho esclusa dal mio pensiero, nonostante l'abbia a due passi da me. Allora forse non ha tutta questa importanza. Forse non mi sono fottuto del tutto il cervello per lei.

Mi volto per uscire e, me la ritrovo con il sorriso stampato sul quel viso che non mi stancherei mai di guardare. Il suo sguardo è dolce, sembra abbia sbollito la rabbia che prima ha avuto la meglio su di lei.

<È pronto!> mi dice come se fosse una cosa normale, come se lei qui fosse di casa. Tolgo gli auricolari e lei mi ripete quello che mi aveva appena detto. La tiro a me facendo scontrare i nostri petti, le afferro i capelli da dietro e la bacio. Ne ho bisogno e forse anche lei, vedendo il modo di come si arrampica a me come fosse un'edera, che cerca il suo muro per crescere, sicura e forte. La sento mugolare nella mia bocca e, ingordo come sono, mi prendo tutto, il suo mugolio, la sua saliva e il suo respiro.

È lei a mettere distanza perché a corto d'aria.

<Devi mangiare ciò che ho cucinato, non me!> mi dice con un lieve sorriso. Ma so quanto la situazione le stia piacendo, perché ha ancora la sua gamba appoggiata al mio bacino. <Piccoletta non fingere! Ho capito che vorresti essere tu il mio bocconcino!> e le tiro uno schiaffo sulla coscia scoperta. Lei sussulta, ma non si stacca, anzi, si aggrappa a me che non ero pronto a questo assalto, e faccio un passo indietro riuscendo a tenere l'equilibrio.

Mi solletica il lobo dell'orecchio con la lingua

<Portami di là che si raffredda, pervertito!> e mentre ci dirigiamo in cucina le rispondo

<Come se la cosa ti sia dispiaciuta prima> e le stringo quelle natiche sode che si ritrova. La faccio scendere, ci sediamo uno di fronte all'altro. Annuso il profumino che quel piatto preparato dalle sue dolci mani, emana. Non è un piatto elaborato, anzi è una semplice pasta col pesto e pomodorini, ma chissà perché, già al primo boccone ha un sapore diverso rispetto a quando me la preparo da solo.

Ci guardiamo ogni tanto, ma è come se lei non volesse incontrare il mio sguardo, forse non si è accorta che io l'ho già vista un paio di volte mentre i suoi occhi mi guardavano. Lei non sta mangiando tanto, i suoi bocconi esattamente sono due pennette, infilzate con delicatezza. Di questo passo il suo pranzo durerà un'eternità.

<Non hai fame, oppure non ti piace?> qualcosa che non va, c'è di sicuro.

<No. In verità non ho molta fame> e credi che io mi beva questa stronzata?

<Avresti preferito mangiare me?> le chiedo con tutta la malizia che ci può stare in una frase del genere. Le sue guance si colorano di rosso.

<Ti piace mettermi in difficoltà, vero?> poso la forchetta all'interno del piatto, dove sono rimasti esattamente un paio di pennette

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