Capitolo 41

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Frank camminava lentamente e in modo monotono lungo il corridoio del castello, la sera ormai inoltrata che faceva capolino dalle alte finestre disegnando strisce scure sul pavimento seguendo le soavi guide delle inferriate sul vetro. Una leggere pioggia picchiava piano sulle finestre, come dei lievi tamburi che annunciavano l'arrivo di una minaccia imminente, sordi a tutti coloro che dovevano esserne avvertiti.
Frank compreso. Era perso nei suoi pensieri.
Sentiva distintamente Lorcan camminare dietro di lui, scambiando in modo sporadico un paio di parole con il fratello, Lysander, che, dopo cio che era successo nella Sala Comune dei Corvonero, si era visto quasi costretto ad accompagnare il gemello alla sua Sala Comune.
A loro due si era aggiunto anche Frank, ma dubitava che uno dei due fratelli Scamander se ne fosse accorto sul serio.
Quasi nessuno si accorgeva di lui. Soprattutto se nei paraggi c'era sua sorella, Alice.
Quella ragazzina era incredibilmente testarda.
"Secondo te cosa é successo fra Hugo e quella Serpeverde, come si chiama..."
"Medelain" disse Frank, quasi assente, ma rizzando le orecchie per la piega che stava prendendo il discorso; gli interessava parecchio.
"Medelain" Lysander scocchiò le dita, sorridendo "si, giusto, quella.
Secondo voi cosa é successo fra loro? Non avrei mai pensato che un Serpeverde si potesse arrabbiare così tanto con un suo compagno. Men che meno una ragazza tanto bella e composta."
Lorcan si strinse nelle spalle, non troppo curioso di scoprirlo.
"E che ne so" si infilò le mani nelle tasche, fissando fuori dalla finestra "sai come é fatto Hugo: sicuramente avrà detto qualcosa di troppo"
Lysander gli rivolse uno sguardo scettico e incerto.
"Pensi che basti? Insomma, dovevi vederla: sembrava sul punto di una crisi di pianto"
"Hugo ha quattordici anni. Cosa altro pensi possa aver fatto?"
"Tu non lo conosci abbastanza" disse Frank, voltandosi indietro verso i due ragazzi. Cercò di non incontrare lo sguardo di Lorcan, anche se i suoi occhi scivolarono involontariamente sulla sua figura.
Lysander lo guardò sconcertato.
"Che intendi?" Chiese inclinando la testa di lato "conosco Lily e Hugo da quando eravamo piccoli.
Andavamo spesso a casa dei Potter, e c'erano quasi sempre sia lui che Rose."
"Però non lo conosci abbastanza da sapere di cosa é capace" replicò Frank, lanciandogli uno sguardo vagamente fulminante.
"No" Lysander rispose secco "é proprio perché lo conosco bene da non riuscire a capacitarmi di cosa possa aver combinato."
Frank era sul punto di replicare, ma la voce pacata di Lorcan lo interruppe.
"Siamo arrivati" disse il ragazzo, fermandosi davanti alla porta della loro Sala Comune. Frank gli si avvicinò, attento a non sfiorarlo troppo.
"Oh" Lysander parve sorpreso, quasi preso in contro piede. Si ridestò e lanciò uno sguardo a Frank che lui non riuscii a identificare. "Bene, allora io torno alla torre di Corvonero.
Buona notte Lorc" batté una mano sul braccio del fratello, poi fissò Frank "buona notte" disse, una sfumatura strana nel tono.
"Buona notte" replicò Frank, imitando la freddezza del Corvonero.
Lorcan gli lanciò un occhiataccia di traverso, identica a quella che lanciò a Lysander un attimo dopo.
"'notte" disse semplicemente, prima di voltarsi e sussurrare la parola d'ordine alla porta della sua Sala Comune; sparii dietro la porta inghiottito dall'oscurità.
Frank rimase solo con Lysander, che continuava a fissarlo in modo calcolatore, la testa inclinata di lato e le labbra strette, come se avesse l'impulso di parlare e dovesse reprimerlo, mentre le iridi azzurre venivano percorse dai centinaia di ragionamenti che attevarrsavano fulmini la sua mente e sparivano subito dopo.
Uno sguardo da segni Corvonero.
"Ci si vede" disse Frank, cercando di non lasciar trasparire la sua suggestione per quello sguardo. Il visto di Lysander non mutò, e il ragazzo pensò che l'altro non se ne fosse accorto.
"Ci vediamo" disse Lysander, prima di voltarsi velocemente indietro, e lasciare che le finestre illuminassero a intermittenza il suo percorso a ritroso. Dopo qualche secondo, perfino l'eco dei suoi passi scomparii, lasciando Frank completamente solo.
Il ragazzo rimase ancora qualche attimo a fissare il punto dove era scomparso il Corvonero, dopo di che si voltò, seguendo la scia di Lorcan.
Quando entrò nella Sala Comune dei Tassi non gli era mai sembrata così accogliente.
Era circolare, scavata nella terra con un clima di casa misto a conforto che invadeva l'aria come un profumo rinfrescante. Sembrava proprio la Tana di un tasso, con la terra ancora grezza che, alle volte, cadeva dalle pareti. I divani di un giallo spento - non troppo comodi, a dire la verità, ma pur sempre belli - percorrevano tutta la parete, appoggiandosi al muro e lasciandosi trasportare dagli studenti che cambiavano la loro posizione quando ne avevano voglia.
Tracciavano una linea ocra lungo la Sala, come segnalando la sua fine.
Sul pavimento, incise nella terra grezza con un incantesimo irreversibile, spiccavano tutti i nomi dei Tassofrasso morti durante la Battaglia di Hogwarts, quasi ventiquattro anni prima.
Frank non aveva mai realmente approvato la scelta di metterli per terra, dove spesso sfuggivano alla vista degli studenti, calpestati da scarpe ingrate che non riuscivano nemmeno a rendersi conto di quanto fossero fortunati. Ma, a quanto pareva, era l'unico a pensarla così:
I Tassofrasso avrebbero passato anche la morte ignorati da tutti, messi in un luogo comune e spesso non calcolati, conservando la loro modesta che li aveva caratterizzati in vita.
Frank, se fosse mai diventato il Direttore della Casa di Tassofrasso, lo avrebbe fatto spostare. Non riusciva proprio a concepire il perché i Tassi dovessero venire sempre così poco considerati.
La porta si chiuse alle sue spalle con in leggero schiocco, che quasi lo fece sobbalzare. Era rimasto impalato sulla porta per diversi secondi, imbambolato contro quella distesa di terra battuta grezza e modesta, e non si era reso conto che doveva anche entrare.
Frank si avvicinò al centro della Sala, puntando uno degli scomodi divani al muro della Sala. Non aveva voglia di andare a dormire. Voleva rilassarsi un poco, prima di mettere definitivamente il punto fine alla giornata.
Per questo, si sedette vicino a un bracciolo, poggiandosi quasi completamente su di esso, accanto a Lucy Wesley, la chioma rossa fiammeggiante come quella della sorella chinata su un libro, che stonava contro lo sfondo giallo della stoffa del divano.
La ragazza, sentendolo, alzò lo sguardo, e gli sorrise.
Frank fece lo stesso.
Ecco, lei era una degna Tassofrasso.
Lucy era la perfetta incarnazione delle qualità della loro Casa.
Più in là, dietro la ragazza, Frank intravide una chioma castana che conosceva bene. I suoi capelli scuri riflettevano lievemente la luce delle candele, mentre la testa era volata a parlare con una ragazza.
Smith non si accorse dello sguardo di Frank.
Il ragazzo rimase a fissarlo per tanto tempo, gli occhi ridotti a due fessure, ma senza traccia di rabbia o rancore nelle sue iridi scure.
Stringeva solo il bracciolo del divano con tanta forza che temette di stracciarlo, ma era comunque più per stress che per vera rabbia.
Frank sapeva che avrebbe dovuto odiarlo, per quello che aveva fatto a suo sorella, eppure....
Non ci riusciva. Non perché fosse un Tasso, e nemmeno perché Smith fosse un suo compagno di Casa, più che altro...
Alice se lo era ampiamente meritato.
Ciò che Smith le aveva fatto, le aveva almeno fatto capire che doveva stare al suo posto. Le aveva sgonfiato un po' quella testa piena di sé tipica dei Grifondoro.
Frank si chiese se fossero pensieri che un Tassofrasso fosse tenuto a fare.
Non erano loro quelli dal cuore d'oro? Le persone gentili e premurose?
Eppure lui non ci si sentiva. E nemmeno, Smith, dato come si era rivelato, sembrava degni della Casa del duro lavoro e della pazienza di Tosca Tassofrasso.
Smith sarebbe stato meglio in Serpeverde. Solo un verde-argento sarebbe riuscito a fare quello che lui aveva fatto a una ragazza senza rancori.
Frank, invece...lui si sentiva più Grifondoro.
Ne sarebbe di certo andato più fiero, se fosse capitato nella Casa rosso-oro, insieme alla sorella.
Forse i loro rapporti sarebbero pure andati meglio, se entrambi fossero appartenuti alla Casa di cui il loro padre, Neville Longbottom, era amministratore.
Frank, scuotendo lievemente la testa, si alzò, andando al centro della Sala, verso i Dorminori - una scala interna infossata nella terra, che conduceva in una spirale di nero a dei letti non troppo comodi, e di certo per niente costosi. Voleva prendere qualche cioccolatino che gli Elfi Domestici gli avevano dato nelle cucine, una settimana prima, prima di andare a Dormire.
Li aveva conservato a posta. Voleva gustarseli da solo, in silenzio. Però li avrebbe dati volentieri a Lorcan.
Quel ragazzo emanava un aura molto curiosa, che aveva catturato Frank dal primo momento di quell'anno.
Lorcan era cresciuto. Si era alzato, era diventanto più responsabile; il mento si era appuntito, gli zigomi alzati e il volto aveva perso le fattezze infantili che, invece, erano ancora presenti in Lily e Hugo.
"Frank"
Il cuore di Frank accelerò, quando riconobbe quella voce. Lorcan.
Si voltò, e incontrò gli occhi azzurri del ragazzo - contro la sua volontà, ovviamente; insomma, lui aveva provato a non perdersi in quelle pozze blu! Non era certo colpa sua se Lorcan le sfoggiava inconsciamente come un trofeo.
Lorcan, la spilla di Prefetto ancora splendente sul suo petto, gli sorrise, lasciando scoperti i denti bianchi e perfetto alla luce delle candele.
C'era un tenue mormorio, nella Sala, che faceva da leggero sottofondo alla scena, ma Frank non provava un eccessivo fastidio: i suoi compagni di Casa, quelli che non erano ancora andati a letto, parlavano sotto voce per non disturbare gli altri.
Quasi come se non esistessero.
"Si, Lorc?" Chiese Frank, cercando di mostrarsi indifferente al battito accelerato del suo cuore. Si spostò lontano dalle candele, temendo che si potesse intravedere un colore rossastro sulle sue guancie.
"Vuoi fare due chiacchiere prima di andare a dormire?"
Anche dieci.
"Certo" Frank sorrise. Stava mentalmente maledicendo il suo stomaco per aver fatto una capriola.
"Ottimo" Lorcan gli passò a fianco, superandolo. Quando le loro stoffe si sfiorarono, Frank sentii i capelli rizzarsi sulla nuca, mentre un brivido di piacere si diffondeva sul suo corpo irradiandosi su tutta la sua pelle.
Si voltò verso Lorcan, che stava scendendo le scale del Dormitorio. Era incredibile quanto fosse incosciente della sua bellezza, dei suoi tratti virili e delicati al tempo stesso, della movenza graziosa con la quale accompagnava ogni suo movimento.
Frank si apprestò a scendere dietro di lui, pregustandosi già la bella chiaccherata che li avrebbe accesi una volta di sotto, e il suo sguardo, involontariamente, scivolò sotto la schiena del ragazzo davanti a lui.
Si sentii arrossire, mentre il suo cuore scalpitava di più nel petto.
Abbassò lo sguardo, mortificato.
Lorcan non avrebbe mai dovuto dargli quelle sensazioni. Nessuno uomo avrebbe dovuto farlo sentire così.
Così...vivo.
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Medelain aveva esagarato.
Non poteva certo mettersi a strillare come una dannata per il semplice fatto di averlo visto. Non ne aveva alcun diritto.
Hugo imprecò mentalmente contro la sua compagna di Casa, mentre scendeva stancamente verso il basso, nei sotterranei del castello, addentrandosi sempre di più nelle viscere profonde di Hogwarts.
Viscere viscide.
Era ciò che si diceva nella Sala Comune dei Serpeverde, le voci che giravano sul conto dei ragazzi appartenenti alla Casa Verde-argento.
Spesso ci si guardava attenti da loro. Si girava di lato quando un Serpeverde percorreva la loro stessa strada.
I professori dicevano che non era vero, che per loro lo stemma stampato sulla divisa non era di alcun conto, ma Hugo non ci credeva.
Lo aveva sperimentato sulla sua pelle.
Riusciva a sentire i mormorii, riusciva a scorgere le persone che lo evitavano per non andare in contro a situazioni sgradevoli.
All'inizio aveva pensato si trattasse solo del fatto che le persone lo vedessero come una disgrazia - cosa che, in realtà, lui era, anche se gli altri si ostentavano a dire il contrario - o perché non riuscissero a capacitarsi che lui e Rose potessero essere fratelli.
Non lo riuscivano proprio a collegare alla sorella.
Poi, Hugo aveva capito che non c'entrava niente la sua storia personale - o, almeno, non era la causa totale - ma, ciò che allontanava le persone da lui, era il colore della sua divisa, di cui Hugo andava anche fiero.
Il suo primo anno, non aveva mai capito perché avesse dovuto vergognarsene mentre ora, nonostante lui continuasse ad avere un certo patriottismo nei confronti della sua Casa, comprendeva il perché gli altri studenti provassero in tutti i modi ad evitarlo.
Ma a Hugo non importava. Erano gli altri che ci perdevano, non lui.
Era anche per questo che i suoi amici erano molto ristretti, una cerchia di qualche compagno Serpeverde del suo anno e qualche compagno di squadra. Però erano pochi: giusto tre, quatro se contava anche Albus.
L'unica amica che aveva e che non era nella sua stessa Casa, era sua cugina, Lily Luna.
Quella ragazza aveva sempre detto che non lo aveva mai visto cambiato, e che non la turbava affatto il colore della sua cravatta.
"É solo una stupida competizione" gli aveva detto quattro anni prima, il giorno che iniziavano le lezioni del loro primo anno. "Non cambia niente di te.
Anche perché dubito tu abbia la possibilità e il potere di diventare un mostro nel giro di una notte"
Mostro. Era stata proprio questa la parola che aveva usato. Mostro.
Alle volte, Hugo aveva la sensazione che Albus e Lily si somigliassero più di quanto in realtà mostrassero.
Lily aveva usato parole diverse, ma il succo era lo stesso di ciò che continuava a ripetere Albus come un disco rotto: la Casa di appartenenza non dice chi siamo.
Solo che Lily usava un linguaggio con un ironia tagliente, spiritoso e giovanile, senza far sentire i suoi ascoltatori dei vecchi incalliti; mentre Albus usava discorsi da campagna elettorale, intrisi di morale che nessuno voleva ascoltare, infarciti di paroloni - di cui Hugo, spesso, non capisca neanche l'esatto significato - che riuscivano ad annoiare perfino il suo migliore amico, Scorpius.
Hugo comunque, non ci credeva, ma non aveva mai palesato la sua opinione agli altri due ragazzi.
Sospettava che gli insegnamenti di Harry Potter fossero più profondi di quanto riuscisse a capire, creavano una convinzione ferma che avvolgeva i suoi figli, convinzione che, Hugo, non aveva mai avuto il potere di scalfire.
Per un momento fu preso dallo sconforto, e rallentò il passo, ormai arrivato alle scale che portavano alla sua Sala Comune.
Harry aveva sempre insegnato tanto ai suoi figli. Li aveva cresciuti con amore, dedicando loro parole di rassicurazione e discorsi di crescita.
Suo padre non lo aveva mai fatto.
Hugo non ricordava un momento in cui Ron avesse abbassato le armi che continuava a puntagli contro da quando era nato, e avesse varcato la voragine che li divideva, abbracciandolo come solo un padre poteva fare. Come solo in padre aveva il potere di fare.
E, adesso, gli mandavano quello abbracci mai avuti come se fossero stati ossigeno. Ma ora era troppo tardi.
Gli unici abbracci che Hugo avesse mai ricevuto erano quelli di sua nonna e sua sorella. Sopprattutto quest'ultima. Rose era spesso andata nella sua stanza, quando lui era più piccolo e magari fuori imperversava un temporale, e lo aveva stretto fra le sue braccia con una conforto unico, che Hugo non riusciva più a provare.
E adesso ci aveva litigato. Tipico.
Hugo sospirò, riprendendo a camminare. Il suono dei suoi passi rimbombava nelle pareti, aplificandosi e sottolineando il silenzio spettrale che lo avvolgeva.
Non poteva biasimare suo padre. Ron aveva ragione.
Hugo non meritava alcun tipo di coccola, o calore umano. Non ne era abbastanza degno.
E Hugo era d'accordo con lui. Se fosse stato al suo posto, probabilmente, avrebbe fatto le stesse cose.
Per quanto Ron non volesse crederci, Hugo sangue del suo sangue. Era abbastanza logico che fossero d'accordo su qualcosa.
Come Harry aveva imparato ai figli lezioni di amore e di vita, e come James, Albus e Lily aveva più o meno la stessa mentalità - e qui si che si vedeva il senso letterale di stesso sangue - Ron aveva insegnato a Hugo - volontariamente o non di proposito, il ragazzino non riusciva a dirlo - che lui, Hugo, non si era mai meritato di venire al mondo.
Non era come Rose. Non aveva la sua stessa gentilezza, pazienza o intelligenza, doti di cui il modo si serviva tutti giorni, e ne aveva bisogno; ma aveva un carattere burrascoso, incosciente e cattivo, e una condanna che si portava appresso da quando era stato concepito.
Rose era la vita, lui era la morte.
Lei splendeva come il sole, Hugo si spegneva come tenebre.
Non poteva biasimare i suoi coetanei se gli stavano lontano, non poteva biasimarli per il fatto che non volevano avere niente a che fare con lui.
Lui avrebbe fatto lo stesso.
Non aveva mai obbligato gli altri a stare con lui, né quando era piccolo né una volta a Hogwarts, e di certo non avrebbe iniziato adesso.
Se ne sarebbe stato in disparte, vedendo i suoi compagni legare gli uni con gli altri, senza dare fastidio; nonostante la solitudine lo stesse mangiando dentro e il desiderio di avere calore umano bruciava dentro di lui distruggendo quel poco di cuore che gli era rimasto.
Ma sarebbe stato muto, come aveva sempre fatto.
Hugo era d'accordo con i suoi compagni.
Lui era una catastrofe, le nuvole che oscuravano il sole.
Una disgrazia.
Un errore, che non meritava niente dalla vita.
Non se ne era nemmeno accorto, ma era già arrivato alla porta della sua Sala Comune.
La pietra si stendeva davanti a lui in un liscio e uniforme ammasso di freddo.
Intravide la porta, la testa di Serpente che sbucava dalla maniglia e, proprio mentre la stava afferrando, le dita secche che si chiedevano sul ferro argento, lo sentii.
Un rumore che lo sconcertò non poco.
Sembrava molto un...
"Flint!"
Una voce femminile, da donna, molto arrabbiata. Hugo era sicuro di non averla mai sentita, eppure aveva un qualcosa di famigliare.
"Mia signora" disse la voce divertita di un uomo, che Hugo riconobbe come quella del nuovo insegnante di volo.
"Vuole qualcosa di specifico?" Continuò Flint, e Hugo sobbalzò.
La sua voce era stata sorprendente vicina, quasi come se lo avesse dietro.
"Flint" la voce della donna sembrava stanca, ma era come se si sforzasse di non sorridere "te lo ho già detto cosa mi serve: una sana scopata non potrà che farmi bene.
Dove é il tuo ufficio?"
Hugo affilò lo sguardo lungo il corridoio, e scorse le due figure, che si stavano avvicinando sempre di più.
Due tenebre alte, più scure delle altre, che si stagliavano nel contorno nero, ingigantendosi sempre di più.
Fece una smorfia. Non avrebbe mai voluto ascoltare cose tanto private.
"Ascolta" la voce di Flint, ora, prese una nota molto più seria e, dalla sorpresa, l'ombra della donna si bloccò "sicura di star bene? Io...non penso più che mi interessi solo il sesso.
Io voglio..."
Segli proprio una scuola per fare la tua dichiarazione. Pensò Hugo, e poi alzò gli occhi al cielo e se ti inceppi pure...siano messi proprio male.
"Io voglio solo il sesso" replicò la donna, una strana durezza nella voce.
Sembrava gelida, Hugo temette di potersi tagliare solo ascoltandola.
"Io...penso di volere di più"
"Siamo scopamici, Flint" la voce di lei aveva una nota definitiva che rattristava il suo tono "non voglio impeganrimi in una relazione.
Non rovinare tutto."
"Pansy..."
"Pansy un cazzo!" Strillò lei all'improvviso, e Hugo sgranò gli occhi, rammentandosi improvvisamente Medelain qualche ora prima.
Un sospiro, poi uno sbuffo e alla fine torno il silenzio, tanto a lungo che Hugo pensò che la donna se me fosse andata.
Poi la voce di Flint parlò di nuovo.
"Va bene, scusami Pansy.
Ti porto nel mio ufficio, la sì che ci diverremo di più"
Hugo immaginó lei sorridere.
"Ma certo" disse smielata Pansy, tornando al tono malizioso.
Hugo fece una smorfia e, mentre vedeva le due figure avvicinarsi, bisbigliò la parola d'ordine, scivolando dentro il silenzio accogliente della sua Sala Comune.
Quando entrò, non degno di uno sguardo i nomi che ornavano la loro Sala. Albus gli aveva sempre detto che quelli erano la prova tangibile che i Serpeverde non erano cattivi, e che quindi neanche lui lo era. Ma Hugo non ci credeva.
Se era finito in Serpeverde, la sede di tanti signori del male, c'era un motivo, e non era difficile immaginarlo.
Hugo salii le scale del suo Dormitorio, dirigendosi verso il suo letto, dove i suoi compagni stavano già dormendo.
Teneva il libro sotto braccio.
Hugo, facendo il più piano possibile, si introdusse nella stanza già silenziosa, con il respiro dei suoi compagni - di cui a stento sapeva il nome - che regnava come unico rumore. Si sedette sul suo letto, accedendo la luce della bacchetta e chiudendosi dentro le tende smeraldo del suo baldacchino.
Si appoggiò alla tastiera del suo letto, stendendo le gambe davanti a lui, sopra la distesa verde della coperta.
Si mise il libro sulle cosce e, con mani tremanti, lo aprii alla pagina che si era segnato.
Il volto di suo madre gli sorrideva dalla fotografia.
Hugo rimase abbastanza sorpreso, nonostante avesse visto quel libro centinaia di volte. Non aveva mai trovato una foto di sua madre, a casa sua. Ron le aveva fatte sparire tutte.
Era un ingiustizia che suo padre e tante altre persone l'avessero conosciuta per così tanti anni e lui, suo figlio, a sento la riconosceva quando la vedeva ritratta in foto.
Se almeno gli avessero detto qualcosa... Se gli avessero raccontato di lei quando lui chiedeva come era...
Scosse la testa. Almeno perdonarli sarebbe stato più facile.
Se lo avessero guardato negli occhi mentre gli parlavano di ciò che era stata Hermione Granger nei suoi anni più fioriti di Hogwarts...
Sarebbe stato più facile lasciar correre il fatto che loro avessero avuto il privilegio di conoscerla quando a lui era stato negato.
Ancora non riusciva a capire perché gli altri avessero questo vizio, di spostare il loro sguardo altrove mentre - molto sporadicamente - gli parlavano di lei. Perché non riuscivamo a incastrare le loro iridi con lei sue? Erano persi nei ricordi?
Hugo ne dubitava altamente.
Era molto più probabile una sorta di allergia alle responsabilità, o forse sì rendevano conto che non era giusto il fatto che lui dovesse chiedere a loro come era sua madre.
Hugo passò una mano sulla foto, colto da un improvviso tristezza.
Il braccio di Hermione sventolava ancora educatamente verso l'obbiettivo.
Hugo desiderava solo essere stretto fra quelle braccia.

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