Capitolo 63

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Albus camminava per i corridoi a passo di marcia. Dalle grandi finestre che interrompevano le file antiche di pietra che tappezzavano i muri filtrava la debole luce solare, che bagnava appena il soffitto con un bagliore dorato come oro liquido, tipica del primo mattino.
Era martedì, il giorno dopo il fatidico diciannove settembre, ed erano appena le sette. Albus si era svegliato presto - sorprendente per i suoi standard - e stava viaggiando per Hogwarts in modo deciso, sicuro di cosa cercare.
Medelain, seppur involontariamente, gli aveva ricordato una cosa, una cosa fondamentale per la sua vita, e Albus ancora si chiedeva come aveva fatto in quei giorni a stare senza, e sopprattutto a non accorgersi dell'enorme mancanza che la sua assenza aveva generato. Forse era stato troppo preso dalle sue cose. Da Rose, da Hugo. Da sua sorella.
Albus sbuffò, scuotendo impercettibilmente la testa. I ciuffi scuri ballarono sulla sua fronte come spine.
No, non poteva dare la colpa a loro. Certo, era stato presente con Rose, anche perché sapeva che la cugina aveva avuto una litigata con Alice - ma Albus non aveva ancora trovato il coraggio di andare a parlare con la ragazza del motivo di tale allontanamento - e si era preoccupato per Hugo quando Lily era entrata nella sua Sala Comune con il fiato corto, il volto rosso per la corsa e i capelli ramati scarmigliati come tanti fili di seta scarlatti, e gli aveva detto che lui aveva avuto una crisi. E si, era stato lui a consolare la sorella quanto lei era scoppiata in un pianto disperato, preoccupata per il migliore amico, e aveva detto che era stata colpa sua. Albus le era rimasto affianco, parlando solo per dire messe frasi di supporto - che comunque rimanevano sospese nel vuoto, e cadevano sulla ragazza senza sortire l'effetto sperato - e avendo la netta sensazione che la sorella esagerasse - ma solo un po', eh - per un semplice svenimento - che tra l'altro poteva capitare a chiunque. Ma era rimasto zitto su ciò, senza palesare questi ultimi pensieri alla ragazzina: Lily sembrava davvero sconvolta. Albus aveva creduto che non avrebbe retto delle frasi del genere.
Sí, sebbene avesse avuto per la testa questi pensieri, non poteva certo dare la colpa alla sua premura - o al codice morale che l'obbligava, forzandolo con la chiave del legame di sangue che lo univa ai suoi parenti - a preoccuparsi per gli altri, se non si era reso conto della grande cavolata che stava facendo. Avrebbe dovuto aprire gli occhi prima, non per colpa di una ragazza bionda che non lo calcolava.
Albus sospirò, voltando in un corridoio. Sbucò fra delle armature che costellavano il muro a intervalli regolari, come macchie argentee spruzzate qua e là simboleggiando una forza antica. Sbuffò.
Per quanto si sforzasse, non riusciva a sentire ciò che sperava. Il senso di colpa, ad esempio. O magari un semplice rammarico. Si sarebbe perfino accontentato di avere la consapevolezza assopita nel suo cervello di aver commesso l'errore più clamoroso della storia, eppure...
Non sentiva niente. Niente di tutto questo, almeno.
Per quanto ci provasse, si concentrasse ad analizzare le emozioni  che lo attraversavano per in quel momento, nessuna era vagamente simile al rimpianto.
Albus sospirò di nuovo, calciando con il piede il terreno, frustrato.
Doveva ammetterlo: aveva marciato sulla cosa.
Aveva guadagnato sugli impegni che lo avevano colto per tutto quel tempo; aveva sfruttato la preoccupazione che aveva per Hugo e Rose; aveva usato tutto il tempo che gli serviva per capire una cosa tanto elementare quando importante per occupazioni futili, che avevano occupato il suo cervello senza fargli rendere conto, nemmeno con il più piccolo neurone che occupava quella scatola cranica quasi vuota, della tremenda cavolata che aveva fatto.
Albus voltò in un altro corridoio, lasciandosi alle spalle quello che le armature. Ora i muri erano tappezzati da tantissimi quadri, e le pietre del corridoio non riuscivano nemmeno a intravedersi, se non con sporadici spruzzi marroni che sbucavano come funghi in un campo bruciato.
Albus rallentò un attimo il passo, lo sguardo che correva sulle tele dipinte dai colori accessi. Era un po' confuso:
Quei quadri gli erano così nuovi che credeva di non essere mai stato in quel corridoio. Gli sembrava di non essere mai stato limbo quel corridoio. Inarcò un soppracciglio, poi si strinse nelle spalle. Poteva capitare, tutto sommato: Hogwarts era una scuola enorme.
O forse quel corridoio era sbucato dal nulla, e per questo lui non lo conosceva.
Albus riprese a camminare.
Dopotutto, Hogwarts era piena di magia: anche questo poteva capitare.
Scosse la testa, cacciando quei pensiero. Perché ci metteva così tanti a concentrarsi?
La cosa da fare era semplice: andare da Scorpius e tornare amici, senza parlare più della pseudo litigata che avevano avuto - quando? Un paio di giorni prima? - in merito a quel bullo.
Il suo dovere, quello di Albus, dettato dall amicizia e dalla riconoscenza mischiata alla gratududite, era solo uno: non lasciare solo Scorpius, come invece aveva fatto per quei giorni, come aveva detto a Medelain. (E anche perché la prima partita di Quiddich, Serpeverde-Corvonero era vicina - appena il primo ottenere!)
Un lieve sorriso solleticò gli angoli della bocca del ragazzo.
Albus trovava vagamente ironico che, a ricordargli ciò, fosse stata proprio la ragazza che voleva fargli aprire gli occhi su quanto in realtà il suo migliore amico fosse cambiato, e spingerlo ad allontanarsi da esso.
Invece aveva sortito l'effetto opposto: Albus stava andando a riprendere il ragazzo che trattava male le persone senza motivo apparente.
Sì, detto così suonava male, ma era esattamente ciò che stava facendo.
Con qualche parolaccia di mezzo in più.
"Porca Puttana!" Esclamò Albus, rompendo la bolla di silenzio e tranquillità mattutina che lo aveva accompagnato fino a quel momento. La sua voce rimbombò fra le mura del castello avanzando lungo il corridoio per poi tornare indietro, superarlo e sparire come un eco lontano verso le cucine. Albus chiuse gli occhi, massaggiandosi il piede che aveva violentemente sbattuto contro il muro.
La sua voce nelle orecchie era un ottimo cambiamento per il ticchettio fermo e regolare dei suoi passi, l'unico rumore che indicasse la sua presenza lí. Non era andata poi così male.
Albus scosse appena la testa, riprendendo a camminare. Svoltò in un altro corridoio, quasi scivolando, e rimase a sorpreso quando lo vide.
Le porte della Sala Grande si stagliavano davanti a lui come figure arcuate scure, e solo un piccolo spiraglio era aperto e faceva filtrare la luce che inondava la Sala, nonostante l'ora presta.
Albus chiuse la bocca con uno scatto metallico. Non si era aspettato di arrivarci così velocemente. Certo, era una fortuna, togliersi quel peso dallo stomaco gli avrebbe reso le giornate più leggere, ma ciò non voleva certo dire che non potesse sorprendersi per la velocità della sua camminata. Per caso aveva corso? No, probabilmente se le sarebbe accorto, avrebbe almeno avuto il fiatone (era abbastanza risaputo che lui non avesse punta resistenza). Forse aveva preso una scorciatoia senza accorgersene.
Albus riprese a camminare, lentamente, verso le grandi porte in pietra. Sì, la seconda opzione era la più plausibile.
Albus arrivò davanti alle porte in quercia, e guardò un attimo in alto. Le porte si estendevano lisce e continue fino a quasi toccare il soffitto, sommortandolo con un aura stranamente inquetante. Albus rabbrividí. Le porte sembravano stranamente imponenti, viste da quella angolazione. Registrò distrattamente un nodo d'ansia che gli si formò nello stomaco, e reagì come se avesse appena sentito un campanello d'allarme suonare nella sia testa: spinse le porte della Sala, entrando in modo un po' troppo brusco, lasciandosi indietro l'ansia e il nodo allo stomaco prima che ne diventasse più consapevole e quindi più reale, concreto.
Più terrorizzato.
La Sala era illuminata dal leggero chiarore del mattino, che filtrava dal grande tetto a cupola dal quale si poteva vedere il cielo azzurro che sommortava Hogwarts quel giorno, e le conferiva un aria sacrare e spettrare al tempo stesso. I raggi luminosi toccavano tutto, nella Sala, coprendo di luce e vita un posto che sembrava andato, e accarezzando con i loro braccia dorati ogni cosa presente che potessero raggiungere.
Aveva scelto quell'ora apposta perché sapeva che Scorpius aveva il vizio di alzarsi presto e, per una volta, aveva deciso di seguire il suo esempio. Più perché non voleva avere spettatori indesiderati e perché voleva togliersi da subito il pensiero; che per il semplice fatto di rendersi conto che, effettivamente, svegliarsi prima era un vantaggio.
Albus scosse ancora la testa, intravedendo con la coda dell'occhio una chioma bionda a lui conosciuta.
Scorpius era seduto al tavolo dei Serpeverde, da solo, e aveva il capo chino su una tazza di cereali che mangiava in totale silenzio. Beh, non che potesse fare altro, anche perché non c'era anima - viva o morta - con cui si potesse scambiare anche le chiacchere più infantili e cordiali.
Albus gli di avvicinò piano, alle spalle.
Se non fosse stato per il cucchiaino di Scorpius che girava nella tazza generando graffi acuti, sarebbero stati immersi nel più totale silenzio.
E Albus l'avrebbe trovata una cosa inquetante. Come la calma che precede la tempesta.
Almeno, con quel rumore di sottofondo, avevano un accompagnamento musicale per ciò che sarebbe stato o il ricongiungimento più imbarazzante della loro vita, o la fine definitiva di ciò che rimaneva della loro amicizia.
Per quanto il suo orgoglio soffrisse, Albus sperava nella prima conclusione. La presenza di Scorpius era troppo importante per rinunciarvi solo per dei piccoli comportamenti infantili. E offensivi, certo.
Ma Albus non voleva arrendersi davanti a quelle piccolezze. Sapeva che c'era qualcosa, sentiva di non sapere tutta  la verità. Che ci fosse qualcosa di cui lui era all'oscuro, qualcosa sepolto sotto i meandri della testa di Scorpius che lui si ostinava, per qualche ragione ignota, a non dire. A non condividere.
"Potter" la voce gelida di Scorpius lo fece quasi trasalire, da quanto era perso nei suoi pensieri. Albus si rese conto di essere a pochi passi da dove l'altro ragazzo era seduto. "Ti ho sentito arrivare dal corridoio con le armature"
Accidenti. Pensò Albus, battendosi una mano sulla fronte come diavolo ho fatto a dimenticarmelo?
"Ah, io non ne ho la più pallida idea" disse Scorpius, senza voltarsi. Affondò il cucchiaio nella tazza, creando un suono metallico "ma so che avresti dovuto aspettartelo"
Albus sbuffò. "Mi é sfuggito di mente"
"Lo avevo capito" la voce di Scorpius era senza inflessioni, forse solo un po' di stanchezza. Aspettò un attimo prima di parlare, e la sua voce parve, per la prima volta, incerta "sicuro di volerlo fare?"
Non é incerto pensò Albus e si sorprese é indifeso.
"Certo" disse, con una sicurezza nella voce che stentava a credere gli appartenesse.
Scorpius si voltò di scatto, gli occhi grigi e privi di espressione che lasciavo trapelare una certa...insicurezza?
"Medelain ha ragione" disse. Tenne gli occhi inchiodati in quelli di Albus "sono cambiato, non sono più lo stesso"
Albus aspettò un attimo, prima di rispondere. Socchiuse appena gli occhi, scrutando il ragazzo che aveva conosciuto per cinque anni.  In tutto e per tutto, Scorpius gli sembrava uguale alla prima volta che lo aveva visto: dai capelli biondi tanto chiari da sembrare bianchi, agli occhi grigi che sembravano perennemente tristi, anche quando in realtà Scorpius era al settimo cielo; la linea della mascella, la forma del viso, perfino il fisico sembrava essere immutato da quello dell'undicenne Scorpius Malfoy, seduto da solo in uno scompartimento vuoto con l'aria smarrita di chi si aspetta solo il peggio, che aveva permesso a lui e Rose di sedersi con lui, quasi sollevato di trovare due studenti della sua età che lo accettassero. Anche se era più alto, un po' più grosso di palle e con delle bende alle dita affusolate - Albus le notò con una certa sorpresa - gli ricordava ancora quel ragazzino che gli aveva offerto una mano insieme alla loro amicizia quando tutti lo guardavano male per lo stemma che portava sulla divisa. L'unica cosa cambiata era la loro età: non erano più due undicenni infantili e innocenti. Ora avevano quasi sedici anni, erano cresciuti, maturati, e avevano preso consapevolezza del peso che i loro nomi gravavano sulle spalle. E Albus, proprio in funzione di questa consapevolezza, prese la sua decisione. Scrollò le spalle. Non lo avrebbe lasciato solo.
"Allora ti accetterò comunque. É a questo che servono gli amici"
"Potesti pentirtene" l'avvisò Scorpius, e Albus colse certezza mischiata a qualcosa altro nella sua voce che non riuscii a identificare.
Rimase in silenzio per tanto tempo, continuando a fissare Scorpius. Avanzò di un paio di passi, e si sedette accanto a lui con un strusciare profondo della panca di seduta.
Albus tenne lo sguardo avanti. Sentii gli occhi di Scorpius fissarlo, sorpresi.
"Allora mi prenderò la responsabilità nelle mie azioni. Mangiamo?"
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Frank si svegliò in un bagno di sudore freddo. Sobbalzò fra le coperte canarino del suo letto, e ci mise un po' a capire che quella stoffa non erano le corde che lo avevano tenuto legato nel suo sogno. Quando ci arrivò, si bloccò all'improvviso, fermandosi come se qualcuno gli avesse lanciato un Incanto Petrificus. Sospirò di sollievo, passandosi una mano tremante sulla fronte e raccogliendo il sudore - che somigliava incredibilmente a delle schegge di ghiaccio - che si era raccolto sulla sua pelle come se stessero tentando di congelarlo.
Beh pensò mentre osservava i suoi compagni di stanza alzarsi e iniziare a prepararsi nel silenzio più religioso per non disturbare gli altri non é troppo diverso da ciò che sogni, vero?
No? O forse sì? Frank scosse la testa, ancora parecchio confuso. Le immagini del sogno - incubo, per la precisione - che aveva appena fatto gli passavano davanti agli occhi in immagini frammentarie e sconnesse tra loro, senza un senso apparente, come se fossero state disegnate in conseguenza su uno specchio e questo fosse andato in frantumi, riversando dentro le iridi aperte solo sprazzi confusi dei disegni originali.
Frank si alzò, iniziando a prepararsi. Ricordava nitidamente le corde, il senso opprimente vicino al soffocamento che avevano accompagnato la sua notte, ma fatica a riuscire a collegare il resto, le altre immagini che avevano costellato il suo incubo rendendolo più vividi e reale. E spaventoso.
Se lo avesse sognato quanto era piccolo, probabilmente si sarebbe fatto la pipì addosso. E lo sapeva bene: una volta, verso i sette anni, George Weasley (che aveva avuto il compito di badare a lui e Alice, incaricato da Neville e Hannah) aveva fatto vedere a lui e a sua sorella un film dell'orrore Babbano (un certo Shining) e Frank di era messo tanta paura che aveva iniziato a tremare. Hannah gli aveva chiesto cosa non andasse, ma Frank si era rifiutato di parlare. Risultato? La notte stessa aveva sognato (con una precisione e una dovizia di particolari disarmante) tutto il film, e aveva bagnato il letto. Il giorno dopo si era svegliato in una puzza da togliere il fiato, e si era anche beccato la sgridata di sua madre, che gli aveva rimproverato di non averle detto niente. Subito dopo, Hannah aveva chiamato George e aveva urlato verso di lui attraverso il camino, con Neville che cercava di tirarla in dietro per evitare che affatturasse il rosso. Frank si era trovato stranamente soddisfatto: il fatto di non essere l'unico a essersi beccato la furia-Hannah lo rincuorava. Il fatto che invece Alice avesse colto la palla al balzo per prenderlo in giro, un po' meno. Era stata così persistente nelle battutine (alle quali anche Neville rideva) che gli aveva messo la fredda paura addosso che potesse ripetersi qualcosa del genere - fortunatamente, adesso la sua regola prima di andare a dormire era (oltre all'auto controllo): non bere, e andare al bagno minimo tre volte;Giusto per evitare, incidenti poco gradevoli.
E poi aveva imparato a controllarsi. Non era certo cosa da poco, questa.
Frank si legò la cravatta di Tassofrasso al petto e la strinse. Guardò con la coda dell'occhio la sua immagine allo specchio: i capelli biondi erano scarmigliati, mentre i suoi occhi scuri avevano la pupilla dilatata, ancora memori del sogno che lui, per fortuna o purtroppo, non riusciva proprio a chiamare alla mente; sotto di essi, c'erano delle profonde borse violacee, appena intravedibile sulla pelle chiara, mentre le dita tramavano ancora. Leggermente, sí, ma non erano ferme.
Frank sospirò lasciando andare le mani. Nessuno avrebbe notato nulla: solo un attento osservatore si sarebbe reso conto che qualcosa non andava.
Ma parliamo chiaro: i Tassofrasso sono troppo riservati per fare un osservazione così intima verso un loro compagno di Caso. Loro avrebbero offerto una mano, un aiuto qualsiasi per non risultare invadenti, e Frank li avrebbe rifiutati tutti dal primo all'ultimo.
Sicuro?
Sbuffò. Frank trattenne una specie di ringhio che gli saliva dalla gola, mentre la frustrazione sembrava mangiarlo da dentro.
No, non era vero.
Se qualcuno, qualcuno di molto speciale, gli avesse chiesto qualcosa, proponendosi di dargli una mano e sí, passare del tempo con lui - ogni secondo che stavano lontani a Frank sembrava sprecato, anche se l'altro non aveva la stessa percezione - lui avrebbe accetato. Sorriso, detto che non aveva dormito bene, e si sarebbe lasciato aiutare di buon grado.
Frank sospirò, mentre scendeva le scale del Dormitorio. Uno strano sorriso triste gli si formò sul volto.
Era inutile pensarci, farsi false illusioni. Lorcan era troppo educato perfino per proporre il suo aiuto.
Perfino quell'ombra pallida, blanda e sghemba di sorriso lasciò il suo volto, come se le funi che lo tenevano su avessero avuto un cedimento, si fossero spezzate.
Un espressione vuota si stampò sul volto di Frank, e lui nemmeno se ne accorse. Continuò a scendere le scale con la testa bassa, in modo molto simile a un morto vivente.
Non poteva mentirsi ancora, ingannare se stesso come aveva fatto fino a ora e continuare a credere che non ci fosse qualcosa che non andava.
Oh sì. Qualcosa che non andava c'era eccome.
Tutto, ad esempio.
Frank scosse appena la testa. La Sala Comune dei Tassofrasso era silenziosa come al solito, con solo qualche lieve mormorio che spezzava il silenzio qua e là, come di un fruscio d'ali in mezzo all'oceano. I suoi compagni di Casa erano troppo discreti anche per comportarsi liberamente all'interno del luogo a loro riservato.
Frank intravide un paio di facce conosciute. Smith, che se ne stava da solo, in un angolo, la testa bionda appoggiata al muro e le mani incrociate al petto; Lucy Weasley, seduta comodamente su uno dei sofà giallo con un libro sulle gambe, la treccia rossa che pioveva sulla sua spalle e sfiorava le pagine come una lingua di fuoco amica; e poi lui, il ragazzo che non riusciva a togliersi dalla testa: Lorcan Scamander, gli occhi azzurri e la chioma castana che ridevano con un compagno del suo stesso anno - troppo carino, per pensiero di Frank - e sembrava abbastanza incurante del resto.
Frank sospirò guardandolo con aria sognante. Il giorno prima, alla cerimonia per commemorare Hermione Grenger, non aveva ascoltato una singola parola che la preside aveva speso per la sua alunna brillante. Neache una. Non aveva colto nemmeno il senso generale del discorso.
Il suo sguardo, la sua attenzione, i suoi pensieri si erano concentrati altrove, qualche posto davanti a lui, dove Lorcan seduto dritto, l'aria assorta e concentrata e gli occhi puntati sulla preside. Tanto il discorso era uguale tutti gli anni, si era ripetuto Frank per quelle due ore, più che altro per smaltire il senso di colpa che sentiva nel non prestare il cento per cento - e neanche lo zero, percento - del suo cervello a quello che era una memoria a una persona che aveva letteralmente fatto la storia.
Ma non era colpa sua. Non era colpa sua se, ogni volta che provava a distogliere gli occhi dalla chioma di Lorcan, una stretta allo stomaco lo costringeva a portarli dove erano un attimo prima, attratti come due calamite da quei capelli che ricordavano tanto il terreno di autonomo coperto di foglie; e continuava a fissare quelle file sottili e secche di stecchi che ricoprivano la sua testa come fossero spilli.
Non era colpa sua se, quando cercava di portare attenzione alla MecGrannit, il desiderio più profondo, la spinta più forte, lo costringevano a continuare a immaginare Lorcan, come sarebbe stato stringere quei capelli fra le dita, guardarlo negli occhi con un atteggiamento più intimo di quello che facevano tutti gli altri, poggiare le sue labbra su quelle di lui e analizzare con la lingua, esplorare il palato dell'altro, avere il diritto e la prerogativa di chiamarlo con appellativi dolci, di far vedere a tutti...
Frank si riscosse dalle sue fantasticherie. Sorrise triste, mentre osservava Lorcan e il suo amico alzarsi e andare in Sala Grande per la colazione. Quelle cose non sarebbero mai accadute, se non all'infuori della sua mente - e, se avesse limitato anche quella non poteva certo essere un male. Lui non avrebbe mai detto niente a Lorcan, accontentandosi di essere solo un amico per lui. Ma non poteva fare altro: non ne aveva il coraggio. E poi, lui non era gay: sarebbe stato inutile allarmare tutti per un non nulla. Una confusione adolescenziale.
Il suo stomaco si strinse, e Frank distolse lo sguardo dal fondo schiena di Lorcan. Non sei gay si ripete con convinzione, andando alla porta della Sala Comune se lo fossi te ne saresti accorto prima. Avresti provato attrazione per i ragazzi già da tempo, non così di punto in bianco.
Frank annuii nel vuoto. Sì, probabilmente era così. Non era gay. E ora non poteva nemmeno pensarci: c'erano le lezioni, aveva altro per la testa.
Frank attraversò la Sala Comune velocemente, calpestando senza guardare i nomi dei Tassofrasso che erano morti nella seconda Guerra Magica. Si chiese per una frazione di secondo se Hermione fosse stata aggiunta nella Sala Comune dei Grifondoro. Certo, non era morta in guerra, ma aveva dato alla guerra un forte aiuto, ed era morta in modo così stupido...
Ora, il senso di colpa per non aver ascoltato l'elogio alla donna che aveva contribuito a rendere il Mondo Magico privo dal terrore tornò, più forte di quando fosse mai stato. Più forte del giorno prima, durante le lezioni, a cui i pensieri erano sempre rivolto a Lorcan. Frank scosse la testa, provando a non pensarci. Era stato una sola volta che non aveva ascoltato, i cinque anni precedenti ci mancava poco prendesse anche appunti. Di certo non faceva niente se, per una volta, si era perso in fantasticherie e aveva preferito i suoi pensieri a un discorso triste...
E poi non era sua madre. Non aveva alcun legale con lei. Non era vincolato da un legame di sangue e dall'obbligo che questo comportava ad ascoltare.
Non le doveva niente, apparte la spensieratezza della sua vita.
Quello che doveva ascoltare con interesse non era lui. Non era lui quello che doveva mostrare gratududite.
Quelli erano Hermione (la figlia) e Hugo - sopprattutto questo ultimo, dopo ciò che aveva fatto alla madre. Frank non aveva mai capito come mai, i fratelli Weasley-Granger non si presentassero all'elogio della loro madre, nonostante, appunto, quella fosse la loro madre. Erano un po' ingrati se facevano così. E incoerenti.
Ma non gli importava più di tanto. erano problemi dei due ragazzi, non suoi. Certo, Hermione gli stava simpatica, ma Hugo non lo sopportava proprio. Sempre musone, con quella espressione che guardava in cagnesco tutti, non era proprio il ritratto della felicità che Frank avrebbe associato a un ragazzino di quattordici anni.
Mille volte meglio Lorcan!

In The Name/ Scorose.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora