Capitolo 65

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Caro.
Come stai? Io e tuo padre siamo un po' preoccupati. Tuo padre ormai, sebbene sia in pensione, spesso si reca al ministero, soltanto per prendersi degli oggetti Babbani rari. Il suo capanno é praticamente pieno! E io lo ho visto, te lo assicuro.
Probabilmente incorrerà anche in problemi con la legge - che, per inciso, é stato lui a creare.
Ma non é importante.
Io, invece, sto passando le giornate a cucinare. Ho trovato delle vecchie ricette che ci ha lasciato Muriel quando é morta, e sono molto interessanti, e anche piatti molto prelibati. Sarebbe bello se riuscissi a imparare a farle per Natale (mancato tre mesi, si, ma aveva avvantaggiarsi non fa mai male, anche se sono sicura mi riusciranno).
Da te invece come va? Novità? Ginny ci ha detto che ti hanno chiamato a Hogwarts per un problema con Hugo. Come sta? Si sente meglio?
Spero di sì. E spero che anche tu stia bene, Ron. Perché non vieni uno di questi giorni a pranzo da noi? Arriva anche Charlie, sarà un modo per salutarlo. Magari, se hai qualche lavoro arretrato in casa, potrebbe farlo lui. Tu che dici? Tuo fratello dice che gli va bene.
Ho anche detto a Harry di non stressarti troppo con il lavoro. So che non dovrei intrommettermi, ma tu sei mio figlio e il carico che danno gli Aurur é pesante. E poi non voglio che tu ti concentri troppo sui criminali: ci stai dietro da quando avevi diciassette anni! Non é giusto che il peso ricada solo su voi della vecchia guardia.
Rispondimi al più presto.
Ti aspettiamo alla Tana.
La tua Mamma.
Molly.

Ron chiuse gli occhi, stringendo la lettera fra le mani. Tremavano appena. Sua madre, da quando Bill le aveva scritto che lui non si era fatto più vedere a casa sua dal diciannove settembre, era diventata un po' ossessiva nei suoi confronti. Iper-protettiva, quasi.
Beh, non che prima non lo fosse, sopprattutto dalla morte di Hermione. Oh, da quel giorno era diventata molto ossessionata dal sapere esattamente dove fosse e cosa fosse, sopprattutto quando ricorrevano date come il diciannove settembre o il ventuno agosto, rispettivamente il compleanno e la morte di Hermione.
E poi c'era la questione del suicidio. Da quel giorno Molly gli era stata con fiato sul collo peggio di Ginny con i figli per il Quiddich.
Alle volte gli sembrava di essere tornato bambino. Di essere di nuovo quel ragazzino goffo e buffo senza alcun spiccato talento che combinava solo guai a scuola.
Già, forse era davvero così. La sua maturità non si associava certo a un over quaranta. Ron si strinse nelle spalle, gettando la lettera dentro il camino del salotto.
Poco gli importava di cosa pensava la gente di lui. Che dicessero in giro che era un pazzo furioso malato e distrutto dal dolore. Di certo non sarebbe stato lui a soffrirne.
Dopo la morte di Hermione, dubitava qualcosa potesse ancora toccarlo. Sperimentare altri gradi di dolore era difficile da immaginare, ma Ron dubitava che avesse davvero potuto essere traumatico per lui. E anche le altre emozioni: gioia, tristezza, euforia, felicità...lo avevano tutte abbandonato nel momento stesso in cui l'anima di Hermione aveva lasciato la terra.
Non sentiva più niente. E non credeva che avrebbe mai sentito qualcos'altro.
Rabbia a parte. Per qualche strana ragione - ma nemmeno così tanta, conoscendosi - continuava a infuriarsi, a gridare contro le persone che gli volevano bene e a ferirle con le proprie parole, divertendosi a vedere le loro espressioni vuote e attonite, con le iridi sgranate per la sorpresa. Ecco, se loro si offendevano per qualche frase che aveva colpito giusto, Ron gli augurava di non provare mai il dolore che sentiva lui tutti i giorni. Il totale vuoto, la sensazione di trascinarsi nella vita senza uno scopo ben definito, i momenti in cui desiderava solo farla finita...e la nostalgia.
Lui soffriva così tutti i dannatissimi giorni e gli altri si lamentavano senza nemmeno essere coscienti della fortuna che avevano. Avere, ad esempio, ancora la donna che avevano amato al proprio fianco. Crescere i loro bambini insieme, vederli giocare e diventare adulti.
Con le sue parole, almeno, anche gli altri avrebbero sofferto. E, seppur non in modo pesante come il suo, avrebbero capito di dover ringraziare Merlino per ciò che avevano.
E poi non era giusto fosse l'unico a soffrire. Anche gli altri, dalla gentile vecchina che abitava nella città, al negoziante del supermercato, burbero e amaro, avrebbero dovuto sperimentate cosa fosse il dolore che lui si portava dentro, come una piastra incandescente che premeva sempre, perennemente, sul suo cuore, senza lasciarlo andare neanche per un attimo.
Almeno, con quelle parole, dava loro una microscopica parte di come si sentiva. Era piccola, si, ma comunque meglio di niente.
Ron sia alzò, sbuffando. Il divano sul quale era seduto lanciò un cigolio ben poco rassicurante, e dal tetto cadde della polvere bianca, come se qualcuno avesse sbattuto con violenza una mano sul muro. Ron osservò contrariato la macchia di cenere chiara che si addossava sul pavimento vicino al camino. Storse la bocca.
"Hugo!" Sbottò ad alta voce "ti ho sempre detto..." E il suo fiato si spense. Le parole gli morirono in gola.
Per un attimo pensò che le proprie corde vocali si erano sciolte, che prima si erano tese per pronunciare il rimprovero, e poi, improvvisamente, la mano della consapevolezza le aveva tagliate, permettendo ai cavi elastici di colpire la sua gola e graffiare la bocca come se avesse ricevuto uno schiaffo. Si erano   scollegate dal resto del corpo, e lo avevano lasciato così, privo e inerme, della forza di completare la frase.
Hugo non era là. Era a Hogwarts. Non a casa. Come Hermione II.
Non poteva dare la colpa a lui per quella cenere. Non poteva più dare la colpa a lui.
Ron scosse la testa, stringendo i pugni lungo i fianchi. Chiuse gli occhi, le mani tremavano quasi incontrollatamente vicino al suo busto.
Non poteva dare la colpa a Hugo. Lui non era là. Non c'entrava niente.
Ron sbarrò gli occhi, pigri. Uno sguardo vagamente più cattivo incupiva l'iride azzurra.
In teoria.
In teoria Hugo non c'entrava niente.
In teoria non poteva dare la colpa a lui.  In pratica, beh...Ron pensava che tutti sapessero come andava a finire la cosa. Era colpa di Hugo.
Fine della discussione.
Ron sospirò, avvicinando la mano alla tasca dei pantaloni. Ne estrasse la bacchetta, e, con un colpo ben preciso, fece evanascere la polvere.
Sorrise.
Agitare e Colpire.
Il sorriso gli morii sulle labbra, lasciando spazio a un espressione vuota. Ron rimise la bacchetta nella tasca e non fece più niente. Da quanto era inespressivo qualcuno avrebbe potuto pensare fosse fatto di pietra.
E forse avrebbe avuto ragione. Dopotutto, la sensazione che aveva da quanto era morta Hermione era questa: di essersi congelato, bloccato in quel tempo, ancora incapace di rendersi conto di averla persa.
Aveva la sensazione di essere morto con lei. Che il suo corpo avesse continuato a crescere solo sotto la legge della Natura e del Tempo, senza alcuna voglia personale di portarsi avanti negli anni e invecchiare. Ron avrebbe voluto invecchiare con Hermione: ora che lei non c'era più, perfino quel desiderio perdeva attrattiva, e ansi, gli dava un po' di paura. La presenza di Hermione lo avrebbe rassicurato mentre vedeva quelle piccole rughe scalfire il suo volto, i suoi capelli rossi stirarsi di bianco, il viso appassire e appesantirsi. La sua voce lo avrebbe confortato, mentre i dolori e gli acciacchi si sarebbero fatti vedere sempre di più, con una frequenza maggiore ogni anno.
Ma lei non c'era. E invecchiare era soltanto l'ennesima condanna da trascorrere senza Hermione.
Non si era ancora risvegliato da quello stato di trance.
Ron scosse piano la testa. Non c'è la faceva più. Salii piano le scale lerce, coperte da uno strato di polvere che sembrava ormai inglobati nella visione della casa. Il solito cigolio dei gradini lo accolse, ma lui nemmeno ci fece caso. Era tanto abituato alla cosa che non se ne accorgeva nemmeno.
Al contrario, si sarebbe insospettito se le scale non avessero emesso alcun suono, fossero state mute. Anche quando andava al Ministero, con gli ambienti così curati e in ordine, puliti - cosa a cui lui non era più abituato da quattordici anni - e saliva le scale accompagnato solo dai borbottii dei suoi compagni a stento riusciva a resistere all'istinto di voltarsi e controllare che fosse tutto a posto. Che nessuno li stesse seguendo.
Che non si stesse preannunciando una catastrofe imminente.
Ron arrivò al pianerottolo nel piano superiore e davanti a lui si apriva la porta del bagno, dove la stanza si mostrava in tutta la sua sporcizia con un lieve raggio solare che si rifletteva sulle mattonelle azzurre, creando una aura celestina molto simile all'aurora.
Lo specchio si era rigato qualche giorno prima, quando Ron era andato là per radersi e, in un momento di distrazione, gli era scivolato dalla mano il rasoio. Questo era rimasto un attimo in bilico, bloccato nella frazione di secondo governata dalla speranza, e poi era caduto, crollato in caduta libera, e si era infranto lungo la superficie cristallina ma sporca dello specchio. Il graffio che ne era partito attraversava tutta la superficie lucida come un torrente che solca una pianura, e smorzava le figure, sdoppiandole in facce e atteggiamenti errati. O almeno era quello che immaginava Ron: lui ormai era tutto sballato, confuso, quindi la superficie dello specchio lo rifletteva con una precisione assai accurata.
Ron sospirò, scuotendo la testa. Lanciò una breve occhiata alla sua sinistra, dove il corridoio si estendeva in una macchia nera in cui perfino di giorno era neccessario accendere la luce per vedere dove mettere i piedi.
Lí c'era la camera di Hugo. Ron ci entrava solo ed esclusivamente quando c'era anche il ragazzino. Mai quando Hugo non c'era. E poi metteva piede là rigorosamente per sgridarlo, mai per altro.
Quella stanza...l'aveva scelta insieme a Hermione. Riaffioravano troppo ricordi per entrare senza avere lo sguardo fisso e accecato dalla rabbia.
Ron svoltò a destra, dove già si intravedeva la camera matrimoniale. Superò la camera di sua figlia, il letto spoglio - per qualche motivo Hermione II si era portata dietro le sue coperte - e le pareti rivestite di rosa, con la carta da parati così mal curata che scendeva fino al terreno come lunghe lingue umane. Poi, quasi sorprendendosi per la fitta più intensa di dolore, arrivò davanti alla porta della sua camera - quella che un tempo era stata la camera di Ron e Hermione, ma ora il lato destro era freddo, il letto vuoto e non c'era una seconda presenza a allietare la vita della prima. Prese un respiro, poi afferrò la maniglia e la abbassò.
La camera era disordinata come il resto della casa. Il letto sfatto, diversi strati di polvere che si accumulavano l'uno sull'altro e la finestra sgangherata erano solo alcuni degli elementi che contribuivano a dare l'idea di caos che accoglieva chiunque mettesse piede in quella casa e non fosse psicologicamente pronto a ciò che si aspettava.
A tutti apparte Ron.
Ron si chiuse la porta alle spalle, il cigolio dei cardini che accompagnava il viaggio fino all'uscio e si avvicinò al letto. Vi ci sedette sopra con l'aria di uno che non ha niente di meglio da fare se non guardare le altre coppie felici che davano sfoggio della loro contentezza con frasi dolci, sguardi complici e baci rubati. Per un momento pensò di somigliare a quei vecchietti che non avevano concluso nulla nella loro vita e, quando si guardavano indietro alla veneranda età, non vedevano altro che un nero e occupazioni futili che avevano cortornato la loro esistenza in modo marginale a, al col tempo, totale; che a loro volta era servita a fare da sfondo a quella di qualche altro giovane che, più spavaldo di loro, era riuscito nei suoi obbiettivi.
Sí, Ron sembrava proprio uno di quei babbani arrabbiati che c'è l'aveva con il mondo per il fatto che la sua vita era andata male, e lo augurava anche agli altri, giusto per fare sapere loro cosa provava...
Sí, a livello di acidità lui era perfetto per quel ruolo. L'unica differenza era che, apparte il gap di età incredibile, lui sotto non nascondesse alcun cuore d'oro, come invece molti vecchi avevano: bisognava solo scoprirlo, lustrare via le delusioni e le tristezze della vita e far emergere la bellezza di qualcuno che aveva tanto da donare.
Ron non era così. Non c'era niente da scoprire, sotto il suo dolore. Solo un cuore arido e la sua anima piegata e solitaria.
Niente di più. Aveva già donato a Hermione, e non era stato ripagato: non avrebbe fatto lo stesso errore con qualcuna altro.
Ron si allungò verso il suo comodino, l'unico mobilio che dalla morte di Hermione era rimasto conservato nella camera (gli altri li aveva bruciati, come gran parte delle fotografie) e l'unico che conservava un ordine e un eleganza che gli rammentavano la presenza di Hermione. Certo, lontanamente, ma almeno era un segno che, forse, lo spettro della sua aura non era andato perduto per sempre.
Ron scosse la testa impercettibilmente, poi aprii il cassetto infondo. Vi cercò un po', concentrato, fin quando le sue mani non si strinsero contro un metallo freddo che lui conosceva bene. Un lieve, leggerissimo, spettro di sorriso aleggiò sul suo volto mentre estraeva la telecamera Babbana.
Se la mise sulle gambe e la osservò un po'. Il tempo non l'aveva consunta troppo, anche se la parte in stoffa che serviva per infilarvi la mano era ormai tutta seghettata, e Ron dubitava che avesse retto, se avesse avuto la bella idea di tornare a filmare. Ma non gli importava: imprimere nuove sequenze della pellicola ormai vecchia non gli interessava affatto. Non gli era mai interessato. Gli sembrava di macchiare la memoria placida che la telecamera conteneva all'interno.
Ron aprii la parte laterale, quella dove si potevano vedere i filmini registrati. Con un respiro profondo, premette il tasto play.
La musica e il vociare di festa e felicità riempirono la stanza in modo immediato. Per un attimo gli parve che bypassassero il confine del tempo e dell'irrealtà e entrassero, spaccato lo schermo, come uno sciame di farfalle bianche dentro la camera. A Ron sembrava quasi di essere ritornato a quei tempi, a quel giorno, per quanto la precisione della sua musica e delle voci lo riportava con l'occhio della mente a quel tempo.
"George, Angelina, volete muovervi?"
"Medame Weasley, non si preoccupi. Noi siamo in perfetto orario"
Una risata cristallina, di donna, e Ron sorrise sentendola. Sullo schermo, le immagini di una Fleur in abito da cerimonia azzurro e un George Weasley abbracciato a quella che sarebbe diventata a breve la neo-miglie svolazzavano un po' indefinite, spiccando fra il grande giardino verde della Tana contro il padiglione azzurro che si innalzava sul loro orizzonte.
Fleur, i capelli biondi legati in una elegante crocchia sulla testa, lo stava fulminando con lo sguardo.
"Sta zitto, George. Siete in ritardo." Disse col marcato accento francese.
"Ma non é vero!"
"George" disse una terza voce, invisibile a Ron "non iniziate"
"Appunto" Angelina diede a lei man forte "non vogliamo certo che il matrimonio fra Percy e Audrey si trasformi in una lotta all'ultimo sangue. Vero George?"
"Verissimo" assicurò lui.
Poi ci fu di nuovi quella risata, e Ron chiuse gli occhi, provando a imprimersi nella mente il suono così dolce e cristallino che lo allietava tanto, e che da troppo non poteva sentire. Cercò di non lasciare andare il suono allegro di Hermione, di non lasciare che lo attraversasse senza dargli niente.
"Oh avanti" Ron sentii la sua stessa voce, una nota completamente giocosa che dimenticava di aver avuto "non succederà niente".
La Fleur del video lanciò un occhiata di avvertimento a George, l'abito azzurro che volazzava ai suoi piedi come un lago mosso dalla leggera brezza del vento, poi accelerò il passo e si avvicinò al gazebo. Hermione ride di nuovo.
"Beh allora andiamo anche noi" commentò George. Strizzò l'occhio in direzione della videocamera e poi si tirò dietro Angelina, ancora ridente, e scomparvero dell'inquadratura, esattamente come Fleur. Per un momento di fu solo il vuoto assoluto, con il verde brillante dell'erba che riempiva lo schermo con la tranquilla calma dell'incorporeo. Poi un luccichio rosso apparve a un angolo, facendosi sempre più definito e grande, fino a comparire completamente nella sua divisa nera.
"Allora?" Chiese un Ron appena ventenne alla video camera, sorridendo. Il Ron vero si era quasi dimenticato che, alle volte, era stato così il suo volto, anche per giorni interi: ora considerava un miracolo se ciò succedeva per più di due secondi. "Come sto?"
Hermione rise di nuovo. "Sei bellissimo."
"Troppo gentile. Anche se credo che tu sia di parte, però. Accetterò lo stesso il tuo complimento, tranquilla"
Hermione sbuffò. "Come se io non ti facessi mai complimenti!"
"Ma tu non mi fai mai, complimenti"
L'inquadratura della telecamera vibrò, segno che Hermione stava scuotendo la testa. Poi rise di nuovo.
Il Ron giovane fissò di nuovo nella telecamera.
"Che c'è?" Chiese la voce di Hermione, ancora invisibile.
"Hermione, dammi la camera. Fatti vedere con quell'abito. Stai benissimo!" Disse Ron, sorridendo.
"Ron, io..".
"Eddai"
"Tu non sai nemmeno come si usa una telecamera!" Protestò Hermione.
Ron sorrise. "Imparerò"
Ci fu un attimo di pausa poi, con uno sbuffo, la telecamera passò dalle mani di Hermione a quelle di Ron. Lui scomparve alla vista, e nell'inquadratura comparve una giovane donna, un abito lilla che le sfiorava gentilmente le ginocchia. I capelli ricci erano lasciati sciolti sulle spalle, mentre il marrone terra delle iridi scrutavano l'obbiettivo in modo quasi cinico.
Hermione sorrise, guardando timidamente la telecamera. "Allora" chiese "sei contento?"
La voce di Ron era sognate "sei bellissima"
Hermione alzò gli occhi al cielo.
"Sempre questo tono sorpreso"
Ron chiuse la telecamera. La musica, le voci, la risata di Hermione svanirono dalla stanza, facendolo tornare nel silenzio più assoluto. Gli parve di essere strappato via da quei ricordi. Di essere rivalutato con violenza al terreno, spinto oltre i ricordi con una forza inaudita e crudele. Come se una fune lo riportasse a riva, dopo che lo aveva immerso in un mare di desideri.
Sospirò, passandosi una mano sul volto, stanco. Era questo che Ron faceva quando sentiva la sua mancanza.
Quando la morte della sua Hermione si faceva sentire come un bruciore sulla pelle, un dolore quasi fisico.
Si perdeva in quei ricordi, lasciava che la nostalgia e la sua presenza lo invadessero come avrebbe fatto uno sciame di api se lui avesse toccato il loro alveare. Si mostrava indifeso difronte a quelle immagini che non gli appartenevano più, che mostravano solo quando avesse fallito come uomo, marito e padre. Ma era piacevole, come il piacere che più dare una cioccolata calda in una notte gelida di inverno. Lo scaldava dandogli un senso di conforto, anche se illusorio.
E poi lo ustionava, come se si fosse versato quella cioccolata calda addosso, come se avesse infilato una mano dentro il forno.
Eppure, anche quel dolore era piacere. Faceva parte del perdersi nei ricordi e provare a vivere, per qualche secondo, nell'immaginazione che niente fosse successo. Che Hermione non fosse mai morta.
Per questo preferiva immergersi in quei ricordi, lasciare che la nostalgia lo invadesse, che andare alla tomba di Hermione. Seppur ci poteva parlare, sempre con la sua testa, ovviamente, quel luogo non faceva altro che sbattergli in faccia la nuda e cruda verità: lei era morta, per sempre, e niente l'avrebbe riportata indietro.
E poi era strano. Alle volte si chiedeva se per caso non fosse pazzo.
Invece, così, poteva lasciare che la bellezza infinita di averla ancora al fianco lo riempisse di gioia.
Una gioia che non provava più da tempo.
Quando il campanello suonò - non era esattamente il ding dong delle case inglesi: quel campanello si era rotto qualche anno prima, e produceva solo un fischio acuto - squarciò il silenzio che si era creato intorno a loro - lui - Ron sobbalzò tanto che per poco non gli cadde la telecamera dalle mani. La afferrò al volo, stringendo le dita attorno al metallo freddo, e sospirò di sollievo costatando che non gli era sfuggita. Poi la mise sul letto, alzandosi confuso.
Non era sicuro che qualcuno avesse suonato al suo campanello. Forse quello di qualche vicino.
Ron si schiaffeggiò mentalmente. Non c'erano vicini: la loro casa era un buco in mezzo al bosco.
Però, se ci fosse stato qualcuno, perché non suonava ancora?
E poi, chi mai poteva fargli visita?
Come per ridestarlo da questi pensieri, ci fu di nuovo il campanello. Sempre più confuso, Ron uscii dalla stanza.
Percorse distrattamente il corridoio rosso che ormai cadeva su se stesso e scese le scale. Pensò che probabilmente fosse sua madre, allertata dalla mancata risposta alla sua lettera, e alzò gli occhi al cielo.
Alla porta bussarono in modo più forte, quasi impazienti.
Ron sbuffò. "Arrivo, mamma!".
Scese le scale, e l'improvviso silenzio lo fece un attimo inquetare. Poi si ricordò che il cigolio dei gradini non continuava fino al terreno.
Si strinse nelle spalle, andando verso la porta che ora era martoriata di pugni.
"Arrivo" disse ancora Ron. Afferrò la maniglia e aprii la porta "mamma, tranquilla, ti sono grato, ma-" e si bloccò.
Spalancò la bocca, incredulo, mentre la sua mano cadeva dalla maniglia e si stendeva al suo fianco, inerme. I suoi occhi si sgranarono per l'incredulità.
Se Ron credeva di non poter più provare niente, beh, si sbagliava.
La sorpresa la provava ancora.
"Tu che...che ci fai qui?" Chiese quando ritrovò la voce.
La donna in contro luce si stagliava come una figura snella sulla porta, contornata dal sole che brillava alto nel cielo, irradiando di oro l'azzurro che li sovrastava. Ron socchiuse appena gli occhi, accecato.
"É qui che abiti?" Domandò lei, e, seppur non potesse vederle il volto, a giudicare dal tono schifato l'espressione non doveva essere da meno.
Ron riaquistò il suo solito sguardo serio. Chiese la bocca. "Ci vivo. É diverso"
"Immagino"
"Che ci fai tu qui?" Ripeté Ron, seriamente irritato, chiudendo un po' di più la porta.
Lei non parve farci caso. "Ti faccio visita"
Prima che Ron potesse replicare, lei avanzò, aprendo la porta e entrando in casa. Lo scostò senza quasi toccarlo, mettendosi al centro del salotto e osservando tutto con sguardo critico. Si mise le mani suoi fianchi, mentre Ron chiudeva la porta.
"Ma tu seriamente fai vivere due adolescenti qui?" Chiese Pansy, voltandosi scandalizzata verso di lui.
Ron storse la bocca "sono i miei figli" disse "e ci sono solo per tre mesi l'anno. Non penso che gli cambi tanto"
"Ma sono anche cresciuti qui. O hai dimenticato che prima di andare a Hogwarts gli studenti sono istruiti sai, a casa?
"Sei venuta qui per farmi la morale?" domandò Ron, inarcando un soppracciglio. Pansy non disse niente. Era vestita come lo era quando si erano incontrati a scuola, un paio di giorni prima: un tubino nero e aderente che le fasciava le curve in maniera provocante e sedicente; degli stivali del medesimo colore che arrivavano alti, fino alle ginocchia e avevano un tacco vertiginoso; un cappottino verde e una chiazza smeraldo all'altezza del petto scollato, e Ron vi riconobbe il reggiseno. Spostò lo sguardo per rispetto.
"Anzi" fece Ron, a un tratto arrabbiato "perché non mi dici perché sei venuta qui. Almeno non tento a indovinare"
"Saresti troppo stupido, per quello" ribatté Pansy, alzando il mento.
"E se tu te ne andassi?" Propose Ron, esaurito.
"E se tu pulissi questo porcile?" Domandò Pansy, sbuffando, prendendo la bacchetta.
Ron, sorpreso, disse la prima cosa che gli veniva in mente "non sei mia madre"
Pansy gli lanciò un occhiata da sopra la spalla "davvero? Ma non mi dire. Non ci sarei mai arrivata"
Ron sentii le orecchie scaldarsi. "Intendevo" marciò verso di lei, i densi serrati per non urlare "che nessuno ti dà il diritto di venire qui e fare come se esistessi solo tu. Come se fosse casa tua"
"Il diritto no" concordò Pansy. "Ma ho l'obbligo morale di fare qualcosa"
"E perché mai?" Chiese Ron "noi non siamo amici"
"Infatti non lo faccio per il legame decisamente discutibile di amicizia che ci lega" disse Pansy, trafiggendola con uno sguardo "lo faccio per i tuoi figli."
"Per loro?" Ron era stupefatto.
"Si" sibilò Pansy
"Non te lo ha chiesto nessuno!"
"Ho parlato con tuo nipote" raccontò lei "per quanto tu sia sgradevole non meritano di vivere in questo porcile"
"Non é un porcile" ribatté Ron debolmente. "É casa mia"
Pansy lo ignorò. Sfoderò la sua bacchetta, e poi lo fissò con gli occhi scuri assottigliati.
Per Ron era una situazione tanto stramba e estranea che non riuscii ad avere una battuta acida "che c'è?"
"Sembri sorpreso" disse lei meditambola "come se nessuno ti avesse mai detto certe cose. Dubito che però, una famiglia amorevole come sono gli Weasley, ti lasciano allo sbaraglio della depressione"
Ron non disse niente. Si, era sorpreso, ma non per quello. Harry gli aveva detto mille volte cose del genere, e Charlie le ripeteva ogni volta che gli scriveva. E quando veniva dalla Romania gli aggiustava sempre le cose.
E infatti, Ron era abituato a interventi del genere. Fatti dalla sua famiglia, certo, non da Pansy, ma le azioni erano sempre uguali.
Ma Ron si era sorpreso per un altro motivo. Spostò gli occhi, puntandoli fuori dalla finestra.
Aveva scambiato Pansy per Hermione.

In The Name/ Scorose.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora