Capitolo 7

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Il sole splendeva alto nel cielo, illuminando, come un faro malconcio, la casa ormai quasi completamente coperta dalle erbacce.
Il vento leggero passava trai fili d'erba, muovendoli in una curiosa danza che sembrava portare con sé un presagio, sussurrando lievi informazioni utili solo a chi sa ascoltare.
Una ruota, abbandonata nel manto verde di recente, che spiccava sul suo sfondo come una scritta nera su un foglio, ormai sgonfia brillava lucida sotto la brina, sembrando quasi un occhio cerchiato di nero, con un velo di lacrime prossimo a cadere.
Ascoltava i sibili del vento, respirando piano la sua opinione, e lasciando che il copertone si gonfiasse e sgonfiasse, come una vela al vento, sotto il dettato severo della raffica che imperversava.
Diverse foglie volavano nel cielo azzurro, volteggiando in complicate coreografie ed esibendosi in graziose capriole che avrebbero fatto sciogliere chiunque; ballavano, sulle note scandite dall'aria e dal tempo, leggere come piume, ma potenti come spilli. Il loro manto verde era illuminato dai raggi del sole, che fendevano timidi l'aria, come vergognandosi per ciò che stavano facendo e cercando, per allietare il senso di colpa, un vago permesso per interrompere il flusso di pensieri che attraversava la casa diroccata.
Disseminati a terra, che punteggiavano il terreno da sotto gli alti filo d'erba, si mostravano delle tegole, quasi completamente oscurate dall'ombra, che esibivano le strisce scure come un trofeo d'onore. Non avevano un senso logico, e solo alcune erano ancora intatte, come se fossero state illese alla caduta che aveva preceduto il loro atterraggio, dopo che il tetto, stanco di loro, le bandisse per sempre, condannandole a un esistenza mediocre sotto le intemperie e sopra la terra.
Ma, se pur potesse sembrare che le tegole fossero in perfette condizioni, nessun occhio umano poteva vedere le micro crepe che le attraversavano, allungandosi come fili bianchi su tutto il corpo di terracotta, partendo dal cuore e arrivando, senza pietà,fino alle estremità, alle quali mancava poco per cedere definitivamente.
Erano ferite invisibili.
Non c'era solo questo. Il giardino che avvolgeva la casa, e l'abbracciava in una morsa spezza-collo, offriva anche le altre tegole, ormai completamente andate, che punteggiavano con i loro cocci l'erba, in un cieco ricordo di ciò che erano state, e in un tenue avvertimento di ciò che poteva accadere.
Erano distrutte, spezzate per sempre dal contatto del suolo, che ne aveva distrutto l'esistenza in un attimo, senza guardare la vita passata.
Il filo che le aveva legate alla vita, nel giro di un secondo, si era rotto, irrimediabilmente, lasciando un vuoto incolmabile su questa terra.
Ecco, queste erano ferite visibili.
Ed era a questo che Rose pensava, appoggiata con la schiena al muro quel 21 agosto, il ricordo che si faceva strada in lei pungendo il suo percorso, e sgomitando per percorrere tutto il suo corpo.
Pensava di somigliare troppo a quei cocci, unica testimonianza di ciò che la casa, un tempo era stata.
Un tempo, perché adesso gli abitanti erano divisi, spezzati per sempre quando un componente era mancato, caduto per la troppa audacia e spezzato per sempre contro le conseguenze delle sue azioni.
Rose si alzò, la mattina che lentamente pendeva il posto nelle tenebre, pronto a dare inizio a un nuovo giorno, ignaro - o forse incuro -  del dolore che la ragazza stava passando in quel momento.
Era stato inutile. Sperare che il tempo si fermasse. Che assurdità! Solo ora che Rose ci ragionava, l'alba del giorno che aveva temuto di più che si faceva strada nella pallida nebbia del mattino. Solo ora, si rese conto di quale scemenza fosse stata, quella di credere che il tempo, per un suo capriccio personale, avrebbe interrotto la sua corsa inesorabile, e avrebbe cessato - per un giorno - di mettere in atto il suo moto di invecchiamento, e di accontentarla, per poi passare subito al giorno dopo, senza lasciare memorie del 21 agosto.
Ma, come si poteva vedere dal numero sul calendario, era stato una stupidaggine pensarlo, e lo era tutt'ora.
Eppure...Rose ci aveva creduto. Aveva sperato, pregato, invano che non dovesse subire quel supplizio, che il tempo l'ascoltasse e che mancasse un passo, allungando la gamba per saltare il giorno 21 e passare subito al 22.
Era stupido, e lei ci aveva creduto.
Si era sbagliata, ovviamente, ma non poteva cancellare ciò che era stato.
In tutti i sensi.
Rose afferrò la maniglia dietro di lei, gli occhi velati di lacrime segregate nel silenzioso, senza forza o volontà nel potersi liberare, scorrere liberamente, dalla prigione di apatia e durezza in cui la ragazza le aveva costrette.
Prese un respiro, il vento soffiava contro di lei, gonfiando i capelli rossi come ali spiegate, e, prima che potesse pensare a altro, abbassò la maniglia, rientrando in casa.
Era inutile, lei lo sapeva, avrebbe dovuto riuscire poco dopo, ma voleva prendere tempo per essere sicura di ciò che faceva.
Entrò in cucina, la porta che batteva al vento in una rumorosa protesta per come era stata dimenticata, e prese, allungandosi sulle punte dei piedi, un post-it giallo. Lo separò dagli altri in un movimento secco, che nella cucina desertica rimbombò come sovrano.
Ficcó la mano nella borsa di perline, setacciando con le dita veloci l'interno. La sua pelle sfiorò qualcosa di freddo, e Rose serrò le dita attorno al piccolo cilindro.
Si appoggiò sul tavolo, il foglio che ritagliava una finestra gialla nel nero della superficie. Rose estrasse la penna e, con lettere chiare e concise, incise dove andava, un lieve tremore nella parte finale che tradiva la sua incertezza.
Rose si raddrizzò, lasciando cadere disordinatamente la penna nella borsa. Fissò il foglio, le lettere nere che brillavano nella luce mattutina, e prese un profondo respiro.
Afferrò il post-it, attaccandolo sul frigo. Si mise la borsa in spalle e uscii.
Quando era alla porta si voltò un ultima volta a guardare il suo scritto, la mano che stringeva il legno della cucina e lo sguardo deciso.
Rose socchiuse gli occhi.
Se l'avessero voluta raggiungere potevano farlo. Era una libera scelta.
Ma, Rose lo sapeva bene, nessuno dei due si sarebbe mosso per venirle incontro. Li conosceva molto bene.
Rose si voltò, i capelli rossi che fendevano l'aria, lasciandosi alle spalle il biglietto.
Le lettere parlavano chiaro, nonostante non ci fossero più i due occhi azzurri a sorvergliarlo.
La scritura di Rose era inconfondibile.
Torno per pranzo. Ci vediamo dopo.
Vado da mamma.
Rose attraversò il soggiorno, uscendo dalla porta ancora aperta. La chiuse dietro di lei, e, in un mare di pensieri che le affollavano la mente, si incamminò a passo spedito, percorrendo l'autostrada con la stessa assiduità di un viaggiatore con la sulla polare.
Camminò per diversi tempo, il panorama che sfilava intorno a lei, cambiava mutandosi in paesaggi sempre più rigogliosi, con rami piegati sotto il peso dei fuori che ne ingombravano il legno, composizioni verdi e rigogliose di tulipani, rose, margherite e viole, in un illusione di vita che non c'era.
Rose odiava quella parte del percorso.
Le sembrava una vera e propria presa per i fondelli per ciò che stava andando a fare. Chi era stato il genio da piantare alberi pieni di foglie, fiori sbocciati e api che, circondate dal loro ronzio di avvertimento, riempivano l'aria come gocce nel mare?
Chi era stato tanto stupido da inserire il concentto che la vita continua che tu lo voglia o no?
Chi aveva avuto la bella idea di fare vedere che qualcosa ancora esisteva, in quel posto di morti, nonostante chi ci andesse sperava il contrario?
Chi aveva conservato la vena di positività, nonostante il fato giù andesse contro?
Rose non lo sapeva, ma, se lo avesse trovato, aveva le idee chiare su come trattarlo.
Uniche cose chiare, in quell'agitarsi della massa informe dei suoi pensieri.
I suoi piedi ticchettavano contro i piccoli sassi che si schiacciavano contro le suole, emanando un lieve grido di protesta per come venivano trattati.
Rose li sentiva, spostarsi, muoversi agitarsi sotto il suo peso, innocui e inermi nella loro piú impotente immobilità, senza avere la piú minima sentenza di dolore. Senza sapere ciò che la rossa provasse.
Senza conoscere, la punta del puntiglione che le attraversava il cuore, intossicando con rabbia le sue emozioni.
No, loro non sapevano il suo dolore, e Rose provava solo piacere a vederli gridare sotto di lei, a implorare la clemenza che Rose non gli avrebbe mai concesso.
Era in suo potere, ora, consentire di far soffrire quelle piccole pietre. Era in suo potere, dettare le gioie e i dolori che stava infliggendo, sotto il suo più totale controllo.
Si, era bello, anche se per poco, poter controllare tutto ciò.
Rose rallentò il passo, riconoscendo il posto. Aveva il fiato pesante, che si mischiava nell'aria imperiosa confondendosi con il vento che la sospingeva in avanti, come un incoraggiamento a non aver paura.
O a soffrire. Potevano essere entrambe le cose.
Rose si lasciò un attimo cullare dall'aria in movimento, il sole che batteva alto sulle pietre, e la palla luminosa oscurata dalla nebbia del mattino. Il vento attraversava i rami degli alberi, salici piangenti, sta volta, che Rose gradiva molto di più di tutto ciò che l'avevano preceduta, anche perché lo riteneva la scelta più azzeccata.
I lunghi rami pendevano dal tronco, chinandosi e prostrandosi in un onoroso e doloroso inchino, mentre la ragazza passava fra di loro, lo sguardo perso e gli occhi che si facevano sempre più lucidi.
La mano di Rose andò alla borsa di perline, le dita che affondavano tra le perle gradendo il leggero tintinnio che riempiva l'aria, unico rumore nell'immobile silenzio tombale.
I suoi passi, ora più accorti e lenti, si misuravano in modo sempre più piccolo, provando a rallentare il tempo che la separava, ad assoporare l'ansia che la mangiava dentro e il battito del cuore che scalpitava nel petto, come a volersi liberare dalla stesse prigione nella quale Rose aveva bloccato le sue lacrime.
Il suono delle piccole pietre riempiva l'aria,rimandando echi distorti e inquentanti dei movimenti della ragazza. La sacralità che avvolgeva quel posto la stava avvolgendo, facendole un attimo perdere l'equilibrio, in tutta la sua magnificenza fatta da rispetto e gratificazione.
Rose deglutii, la mano che correva sempre più veloce sulla borsa, e il nodo in gola che di formava in modo rapido, fino a chiuderle le vie respiratorie in una morsa di agonia e dispersione, che Rose non poteva permettersi di lasciare uscire. O di lasciar trapelare, in qualsiasi altro modo.
Non poteva lasciare che il dolore che l'affliggeva varcasse l'esterno, trovando un piccolo cedimento nella fortezza che si era creata, e lasciando che si mostrasse al mondo per ciò che era.Non poteva lasciare che la sua fortezza avesse punti deboli, punti meno forti degli altri, non poteva permettersi l'anello debole nella catena che teneva unità la sua famiglia. Non poteva, perché al più piccolo cedimento, alla più piccola incertezza che l'avrebbe volta in un uno dei momenti più sbagliati, tutto sarebbe crollato.
La sua fortezza, le certezza per la sua famiglia, le aspettative che avevano di lei, la stima che nutrivano nei suoi confronti.
Tutto, alla minima frana, alla minima crepa che mai avrebbe dovuto rigare le sue mura, sarebbe crollato, sparendo per sempre e portandosi dietro ciò che rimaneva di lei, quel poco che il dolore aveva lasciato. Quella minima parte, illesa e ancora indenne, che lo schiaffo della morte le aveva acconsentito a fare restare, forse solo per preservare un minimo della bambina spensierata che era stata e consentire alle persone che la conoscevano un modo per associare quel sorriso allegro e sincero, a quello che accompagnava Rose da quasi quattordici anni a questa parte. Che si schiaffava in viso per non far preoccupare gli altri.
Forse solo per far vedere cosa fosse stato perso per sempre, come i cocci che inquinavano, in una memoria autentica, il suo giardino.
Un enorme, incolmabile, voragine al cuore, perennemente trafitta dalla lama calda della perdita.
No, Rose non poteva fare vedere all'esterno ciò che provava. Doveva essere forte, come lo erano stati i suoi genitori prima di lei. Era questo che tutti si aspettavano, e Rose, alzando la testa e stringendo i denti, avrebbe dato loro quello che volevano.
Doveva farlo. Era il pegno che doveva pagare per l'aria che entrava e usciva a intervalli regolari dai polmoni.
Rose si fermò, riconoscendo la lapide.
La sua mano, quasi inconsciamente, smise di torturare le perline, e cadde mestamente lungo il suo fianco, in un segno di resa e impotenza difronte a ciò che non controlliamo.
La bocca le si piegò in una smorfia, le labbra strette che premevano lun l'altra per trattenere il più spontaneo e infantile dei singhiozzi. Diventagano bianche, la forza delle determinazione che dava una valida barriere contro l'urlo di dolore che premeva nel suo petto, pronto a uscire. Rose si morse il labbro a sangue, cercando di non dar a vedere le sue emozioni.
I suoi occhi si sgranarono, mentre le lacrime le salivano sul ciglio, come l'alta marea nel mare, e le offuscavano la vista, facendo sfumare ciò che le stava davanti, mentre, lentamente, ricordi si facevano strada in lei, dirompendo nella sua mente come se una diga fisse stata appena distrutta, crepata dalla debolezza con la quale era costruita.
Rose non si curò di non riuscire a distinguere le parole sulla pietra. Non aveva più bisogno di leggerle. Le sapeva a memoria.
Una lacrima evase le sue protezioni, scovando un varco in cui passare, e scorrendo, libera, sulla sua guancia.
Una mano le corse al petto, stringendo la stoffa della maglia leggera che si era messa addosso, e che lasciava passate il vento più gelido e pungente che mai, più di quanto fosse stato quando era uscita.
Forse avrebbe dovuto mettere qualcosa di più pesante, ma tanto, ormai, il freddo non la sfiorava più.
Il suo dolore distruggeva ogni cosa.
Rose rimase immobile, la sua figura che si stagliava nitida contro i raggi del sole più forti, e i capelli che le volevano davanti, circondandola con il fuoco della tristezza. Bruciava di più del fuoco fatto di fiamme.
Era un dolore che andava più affondò, e non penetrava solo nella pelle, ma arrivava al cuore, ustionandolo fino a renderlo arido di emozioni.
La lapide recitava solo poche parole, incise sulla pietra in modo indelebile, scritte da una mano graziosa e allenata, che brillavano scure come sentenze finale sotto il sole alto nel cielo di quel 21 agosto.

In Memoria di Hermione Jean Grenger
Moglie, madre e amica brillante.
19/09/1979-21/08/2008
La strega più brillante della sua età, riposa in pace.

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