I~ Filo rosso [pt. 1/5]

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"Lei allunga la mano. Lui, a migliaia di chilometri di distanza, la stringe."

-Anonimo

-Anonimo

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[4 Febbario 1996]

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[4 Febbario 1996]


NARRATORE ESTERNO

Davanti al grande lago di Echo Park, Diana sedeva su una panchina. La stessa sulla quale si adagiava sempre per godere del panorama, specialmente nelle ore del crepuscolo. Il vento non era estremamente freddo, ma l'assordante quiete attorno la fece rabbrividire un poco e si strinse nelle spalle. Da lontano osservava una bambina che, assieme al padre steso sull'erba, sul petto di lui pareva concentrata nel prestare attenzione a qualcosa, forse a una fiaba che egli le stava leggendo. Li guardò per un lasso di tempo che non seppe decifrare, poi deglutì battendo le palpebre e mandando giù quel boccone amaro che le iniziò a gravare sul petto e abbassò infine lo sguardo sul prato sotto i suoi piedi.
Era ormai quasi buio, il cielo era rossastro ed era rimasta sola. Riusciva ad udire solo il fruscio delle foglie degli alberi sfiorate dal vento.
E qualcos'altro.
Corrucciò la fronte e si guardò attorno tentando di capire la provenienza del suono e qualcosa -per un istante- le fece mancare un battito.
Una figura alta e ancora avvolta nell'ombra si avvicinava lentamente con passo lento, quasi tranquillo, fino a che non la raggiunse.
La scrutò con le mani nelle tasche e un'espressione serena dipinta in volto. Al contrario, quella di lei sembrava presa alla sprovvista. Non seppe per quanto non parlarono, probabilmente l'uno tentava di carpire le emozioni e il prossimo passo dell'altra. E Talìka tutto si sarebbe aspettata, tranne le parole che il padre pronunciò.
"Posso sedermi accanto a te?" Chiese osservando lo spazio vuoto su quella panchina, alla destra della giovane. Ella, tacitamente, annuì. Senza guardarlo si fece più in là e portò le mani sul grembo, aspettando qualcosa che tardò ad arrivare.
Robert Meyer guardava dritto davanti a sé come se fosse veramente sereno, come se avesse iniziato -dopo anni- a far pace con sé stesso.

"Come stai, Diana?"
Quel 'Diana' lo pronunciò come lo aveva sempre fatto, sussurrandolo come qualunque tedesco: 'Diana', e non 'Daiana', come preferiva lei e come tutti erano da sempre abituati a chiamarla.
"Bene." Disse lei di getto, poi si fece coraggio. "Tu?"
"Ganz gut, danke/ Abbastanza bene, grazie."
"Che ci fai qui?" Gli chiese poi.
"Volevo sapere come stessi."
"Non ti è mai importato."
"Mai?" Ripeté lui.
Ella fece spallucce. "Okay... Mi correggo. Non ti è più importato da quando ho compiuto vent'anni... Da quando sei diventato tutt'altra persona e hai scatenato l'inferno attorno a te. Da quando non sei più stato il papà che ricordavo mi amasse incondizionatamente..." Poi lo guardò.
"Ma cosa vuoi da me?"
"Dirti che mi dispiace."
"Smettila, non meriti il mio perdono."
Egli strinse le labbra in un sorriso amaro, guardandola con una tenerezza con la quale lei ormai non credeva più potesse guardarla. "Ich weiss es/ Lo so..." Poi tornò con gli occhi sul lago davanti a loro. Prese un respiro e riprese a parlare alla figlia. "Ma non vorresti che tutto questo astio tra noi finisse? Non vorresti voltare pagina?"

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