II~ Philofobia [pt. 2/3]

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"Ho sceso, dandoti il braccio, almeno
un milione di scale e ora che non ci
sei vi è il vuoto ad ogni gradino."

-Eugenio Montale

[9 Febbraio 1990]

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[9 Febbraio 1990]


NARRATORE ESTERNO

Erano ore che gli doleva lo stomaco, che gli bruciavano gli occhi. Aveva mal di testa, mal di schiena, la gamba era indolenzita dentro quell'odioso gesso e, in quel momento, avrebbe solo voluto ingoiare una tale dose di medicinali da portarlo al collasso per non pensare. Voleva uscire dal suo stesso corpo come un fantasma, e magari vagare libero e invisibile tra le vie delle innumerevoli, chiassose città americane. Disteso sul lato sinistro del letto fissava il buio che lo circondava: l'unico spiraglio di luce che intravedeva era quello che, probabilmente, veniva da un lampione posizionato forse ad una decina di metri di distanza da lui sul marciapiede. Era tutto molto quieto, gli unici che interrompevano quel silenzio tombale erano i suoi singhiozzi e i lamenti a denti stretti. Le lacrime bagnavano il cuscino, mentre con una mano provava a massaggiarsi lo stomaco dolente e con l'altra stringeva il lenzuolo in un pugno. Non aveva mangiato neanche la cena, aveva solo bevuto un sorso d'acqua. Avrebbe preferito morire lì, al buio e solo come un cane, invece di provare nuovamente quel dolore fisico ed emotivo... Senza paparazzi, senza quel continuo vociferare. Andarsene così, da solo, immerso nel suo essere, compreso solo dinnanzi al giudizio di Dio. Per un momento gli chiese di portarlo via con sé, di compiere per lui ciò che egli non ebbe mai il coraggio di fare: a quasi trentadue anni sapeva di essere giovane, che sarebbe dovuto vivere altri quaranta o cinquant'anni e arrivare all'anzianità, ma forse in quei momenti di disperazione neanche importava. Non voleva vedersi con la barba bianca, rugoso e dilaniato fino all'osso, ma avrebbe preferito esalare in quell'istante i suoi ultimi respiri. Era stanco.
Ricordò il lungo pianto addosso all'amico John e la telefonata, poco tempo dopo che questo dovette andare via, con la grandissima amica Liz Taylor che, molto amareggiata per l'accaduto, gli promise che sarebbe andata a trovarlo non appena fosse tornata dall'Europa. Nella testa gli rimbombò anche la voce di Diana e le sue risate che tanto amava: quello stesso giorno, prima che arrivasse John, l'aveva chiamato per avere sue notizie. Probabile che fu sempre lei a contattarlo dopo l'orario di cena, ma egli si trovava in una situazione emotiva talmente critica che non volle neanche leggere il numero sul display del suo Micro Tac. E lei ancora non sapeva nulla di tutto ciò che era accaduto, o almeno così sperava.

Nelle otto ore che seguirono alla conversazione con la Taylor restò completamente solo: neanche Barb venne a strappargli un sorriso, ma non perché non lo volesse, ma perché il suo turno era finito appena dopo la mezza. Sapeva però che sarebbe tornata verso le nove di sera e sarebbe già dovuta essere lì.

Il dolore allo stomaco aumentò velocemente e lo portò ad avvertire forti fitte che divennero pian piano nausee, cercò anche di reprimerle più volte ma non c'era nulla da fare. Virò lo sguardo verso la piccola sveglia che aveva accanto: segnava le due e mezza del mattino. Ebbe un senso di conato e, capendo cosa stesse per accadere, si sbrigò a voltarsi col busto per premere il pulsante della luce vicino alla testata del suo letto, poi quello d'emergenza che avrebbe fatto squillare un piccolo allarme presente dietro il bancone dell'infermiere di servizio. Le nausee aumentavano, la testa gli girava e sporse il capo dal letto con il viso rivolto al pavimento. Tossì. Non poteva alzarsi con tanta fretta da solo, ci sarebbe riuscito se l'avesse fatto lentamente ma, con la massima urgenza, necessitava di un equilibrio che solo delle stampelle avrebbero potuto offrirgli.
"Barbara!" Chiamò lievemente, ma non lo avrebbe sentito neanche una mosca. Provò invano a scendere ma scivolò parandosi con le mani.
"Dottoressa Foster!" Gridò un'altra volta prima di rigettare.
Arrivò l'infermiera correndo e, vedendolo così, non perse tempo nell'aiutarlo a rialzarsi.
"No, devi restare a letto! Non puoi sforzare la gamba lo sai."
"Barb... Scusa." Sussurrò mentre la donna lo aiutava a poggiarsi con un braccio sulla sua spalla. Solo allora ella notò il rigetto.
"Non fa niente, non fa niente..." Rispose con un filo di voce: con fare materno gli scostò i capelli attaccati alla fronte sudata e pian piano, zoppicando e rischiando di cadere dalla fretta, il cantante riuscì con quel prezioso aiuto ad uscire dalla stanza e ad entrare nel primo bagno che incontrarono. Probabilmente era quello delle donne o dei disabili, ma in quel momento poco importava. Barbara si sbrigò ad alzargli la tavoletta di un water e, accasciandosi, l'uomo vomitò tutto quello che aveva in corpo.

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