III~ Esordio [pt. 3/5]

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"A volte non c'è affatto differenza tra salvezza e dannazione."
                                       
- Stephen King

"                                        - Stephen King

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NARRATORE ESTERNO

Michael Joseph Jackson portava ancora il pannolino quando cominciò a intrattenere sua madre, muovendosi a ritmo dei cigolii della lavatrice. Oramai era considerato come una divinità, era acclamato come un Dio.
Il suo nome echeggiava nel bene e nel male tutti i giorni: giornali, tabloid, riviste e televisioni parlavano solo ed esclusivamente di lui. Ed egli, così grande e potente agli occhi altrui, era un cucciolo smarrito, vittima della stessa fama nella quale si era ritrovato dall'età di cinque anni e che aveva coltivato per tutta la carriera. Sul palco acclamato, nella vita privata non considerato. Oramai era diventato il suo motto e nonostante le apparenze, possedeva un senso non indifferente ed accecante di solitudine.
Ma quest'ultima aveva intrapreso un'altra via non appena una giovane donna varcò la soglia del suo jet privato. Da allora si sentii meno solo. Finalmente poteva dirlo.
Quella ragazza, sconosciuta ai suoi occhi fino a qualche ora prima, stava in parte riempiendo quel vuoto che da anni aveva accumulato al centro del petto, nonostante la conoscesse da poche ore.
Da lei, sconosciuta fino a poco tempo prima, si sentiva compreso ed ascoltato, cosa che da tempo non aveva ottenuto da nessuno se non per un secondo interesse: il denaro.
Molte cose nella sua vita non andavano, contrariamente a come il pubblico giustamente pensava. Infondo era Michael Jackson, uomo ricco, famoso, invidiato e talentoso.
Ma anche molto triste.

Triste perché non aveva avuto un'infanzia come tutti gli altri bambini. Ricordava che, mentre tornava da scuola con l'affanno per precipitarsi nelle sale di registrazione fino a notte inoltrata, affacciandosi alla finestra vedeva i bambini giocare e divertirsi, al contrario suo.
Per questo li amava così tanto e si proiettava in loro, tante volte. Ma la gente non lo capiva ed era sempre pronta a puntargli il dito contro, umiliandolo davanti al mondo intero.

Era triste perché non aveva mai avuto una figura paterna.
Ricordava che il padre diceva sempre a lui e ai fratelli "Sono prima il vostro manager, poi vostro padre. Perciò chiamatemi Joseph, non papà." E quell'uomo, oramai quasi trentenne, si portava quel bagaglio di sofferenza da anni, e mai se lo sarebbe tolto di dosso data la sua spaventosa fragilità.
Anche se la vita gli avesse potuto riservare un miracolo lui, quel vuoto al centro del petto, quel vuoto persistente ed eterno che lacera i tessuti del cuore fino all'estremo delle forze, non lo avrebbe mai lasciato. Lo avrebbe tormentato per l'eternità, fino a che egli stesso avrebbe avuto la forza di non inoltrarsi più nel passato, di non avere niente a che fare con il resto del mondo. Ma gli era impossibile, seppur lo volesse. Il passato e la persona coinvolta spesso sono come due calamite che, nonostante si cerchi di tenerle lontane, vi è sempre una forza attrattiva. Lui ci provava a dimenticare, lo faceva davvero.
Una volta un suo caro amico gli domandò il perché delle volte si chiudesse in camera, mettesse la musica ad alto volume e ballasse fino allo stremo delle forze, fino a ritrovarsi sdraiato a terra tra risa e singhiozzi.
"Lo faccio per distrarmi, per allontanarmi da tutto e da tutti almeno per un pò.
Mi piace dimenticare chi sono."

𝐏𝐡𝐢𝐥𝐨𝐟𝐨𝐛𝐢𝐚Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora