L'indagine [2]

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Giunsero a destinazione nel giro di tre minuti, già nuovamente umani.

Il palazzo era molto grande ma l'infermeria era, per grazia divina, vicina all'ingresso. Si trattava di una sala di circa dieci metri di lunghezza per ogni lato, con il soffitto alto e le mura in legno dipinto di bianco e grigio a motivo floreale. Foglie nere sfumate stanziavano sullo sfondo nell'immagine perpetua di un albero autunnale dalla fronda morente. Per quanto macabro potesse apparire, era comunque meglio di quattro mura di pietra fredde e la sua vista suscitava relax e riposo.

Questo non valeva per Leonel, che nell'impeto di sfondare la porta con un unico pugno deciso non badò neanche un po' alle decorazioni della stanza.

Tatiana giaceva in silenzio su un materasso chiaro e pulito, avvolta in bendaggi e coperte calde e con una mezza dozzina di demoni in camice che le ronzavano attorno somministrandole erbe e quant'altro. Il grosso uomo infuriato si gettò ai piedi del materasso mentre gli infermieri si allontanavano impauriti dalla sua rabbia.

«Tia...», pronunciò il soprannome che solo lui le rivolgeva.

La donna continuò a non muoversi, respirando appena.

«Tia, ti prego, devi svegliarti. Te lo giuro, ce ne torneremo a casa. Andrà tutto benissimo. Saremo solo io, te ed il piccolo Viktor. Scommetto che vorresti tenerlo tra le braccia», sforzò un sorriso con gli occhi lucidi.

Portò una mano alla sua nuca e le accarezzò i capelli lisci e neri, arruffati dalla lotta. Il suo bel viso era coperto di lividi violacei e chiazze di sangue.

Tatiana non si sarebbe risvegliata facilmente. Le sue condizioni erano critiche e sembravano star peggiorando. Il suo volto era scavato, la sua pelle più pallida del solito, ma ciò non poteva scalfire la sua innata bellezza. Teneva le mani congiunte sul ventre e i suoi lineamenti restavano morbidi e innocenti, come se stesse riposando di proposito.

I pugni di Leon erano stretti con forza, le ginocchia toccavano il pavimento levigato e sorreggevano il suo grande peso, ma questo a lui non importava.

Jocelyn osservò la scena senza fiatare, abituata a non dover fare troppi commenti, ma dentro di sé sentiva crescere una tristezza infinita che la stava plasmando. Non ne poteva più di tutto quel sangue sparso per colpa sua, non riusciva a sopportare le insidie della guerra. Forse, se a morire fosse stata lei, gli altri avrebbero persino gioito. A nessuno sarebbe mai mancata la peggiore Anima di Lupo di sempre. Tranne che per qualche raro caso...

Jason era sbalordito, glielo si leggeva nello sguardo, e aveva temporaneamente dimenticato il suo battibecco con Dervyne. Mosse dei passi avanti, lanciando sguardi incandescenti di astio contro gli infermieri.

«È opera dei quei vigliacchi del Clan delle Ossa Rotte, non è vero? C'era da aspettarselo che prima o poi avrebbero fatto la loro mossa. Questo accordo è stato solo una messa in scena! Non siete altro che impostori!», urlò tutto il suo disappunto in piena faccia ad un medico, un demone grassoccio e anche piuttosto spaventato.

«La tua lingua è tagliente, giovane uomo».

Dall'altro lato della stanza, un demone più grande e massiccio degli altri guardava oltre una finestrella trasparente. Troppo preso dalla sua ira, Jason non aveva notato la presenza del Re stesso nella camera.

Galtur si voltò in sua direzione con calma glaciale e inquietante.

«Se fossi al tuo posto sceglierei con cautela le mie parole. La tua indole potrebbe diventare la tua rovina, un giorno».

Il ragazzo semplicemente si pietrificò sul posto mentre realizzata in quale mare di guai si era appena cacciato.

Dream fu la prima a muovere un passo avanti. «Ti prego di scusarlo, Maestà. È la rabbia a farlo parlare e non credo che qualcuno possa biasimarlo per questo», lo difese prontamente. Incrociò le braccia e tornò calma dopo aver tirato un lungo e profondo sospiro. «Tuttavia non è completamente nel torto. Cosa ci dice che la donna Alpha del Branco Ghiaccionero non sia stata attaccata dietro tuo ordine?», avanzò anche lei la sua domanda, sospettosa.

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