Il desiderio [2]

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Tatiana era molto felice. Stava seduta sul suo bel trono coperto di pelli di lince bianca, nel freddo campo Ghiaccionero.

La sala nella quale si trovava era illuminata da candelabri e torce dalle fiamme vivide. Fuori, oltre le mura di pietra e legna, la bufera di neve imperversava e i venti ululavano sinistri, ma all'interno della sala grande l'aria era calda e profumava di carne speziata.

Alcuni lycan suonavano e cantavano negli angoli più vicini al palco dell'Alpha. Non erano ottimi cantanti, stonavano e spesso la loro voce diveniva stridula, specie sulle note più alte della ballata in lingua russa, ma non importava. Molti altri ballavano, alcuni in piedi sui tavoli, sollevando e abbassando le gambe, battendo le mani e schiamazzando.

Leonel, seduto al capotavola, mangiava beato una coscia di pollo ruspante, non badando al suo gusto piccante e molto salato, sventolandola in aria mentre, anche a bocca piena, si univa ai cori e ai festeggiamenti.

Tatiana non sapeva bene quale ricorrenza stessero celebrando ma si sentiva felice e spensierata. Strinse Viktor al suo petto, poggiando una mano sulla spalla del marito.

Lui deglutì e si chinò sul neonato, sorridente e splendido.

«Hai generato un bambino meraviglioso, amore mio», le disse nella loro lingua, guardandola negli occhi con il cuore che gli batteva forte nel petto.

Tatiana spostò la mano, accarezzandogli una guancia e la folta barba scura. «È anche tuo figlio, il merito è di entrambi», lo lodò baciandolo per un breve secondo.

Lui sorrise ancora e si rivolse a Viktor. «Un giorno crescerai e diverrai il più potente Alpha che sia mai esistito in questo mondo. I tuoi nemici tremeranno e i tuoi alleati si inchineranno al tuo cospetto. Sarai forte, volenteroso e rispettabile». La musica parve perdere il suo volume. «Sarai quello che io non sono mai stato. Farai ciò che io non ho saputo fare in vita...». Man mano che Leon parlava, il suo viso si faceva più pallido e le sue labbra scarne. Ben presto il suo sorriso si trasformò in una smorfia di tristezza e il suo tocco fu gelido.

Tatiana spalancò gli occhi e sorresse il marito prima che si accasciasse completamente contro il bracciolo del trono.

«Leonel! Amore mio, che ti succede?!?», gridò e pianse la donna, mentre Viktor piangeva e si dimenava. «Aiuto! Aiutatemi!», invocò guardandosi attorno, ma rabbrividì quando notò che chiunque, nella sala, era scomparso. Restavano solo corpi immobili sul pavimento, corpi che lei conosceva bene. Riconobbe il viso di suo padre e del suo migliore amico, poi quelli di guerrieri a lui fedeli, di cari amici e amiche.

La porta della sala si spalancò. La bufera entrò nella stanza, spazzando via molti tavoli e sedie, che si ruppero contro le vetrate. Le fiamme si spensero e tutto divenne cupo, a stento irriconoscibile. La luce fioca filtrava dalle finestre distrutte e dalla grande porta, dalla quale emerse una figura bassa e scura.

Si trattava di una donna, che trascinò un piede dietro l'altro, avvicinandosi al tavolo, calpestando i cadaveri e dondolando la testa inespressiva. I capelli le volavano nel vento, disordinati e onusti di neve, serpeggianti come se avessero vita propria.

Tatiana la osservò e la chiamò.

«Hope, aiutami! Leonel... non so cosa abbia! Tutti gli altri... come sono morti? Cosa è accaduto?», la interpellò disperata.

Hope continuò a far oscillare il collo mentre ghignava. «Pensavo sapessi tutto di lui e del Branco. Me lo hai detto tu, ricordi? Hai detto di essere la moglie di Leon, di essere l'Alpha dei Ghiaccionero...», sibilò con voce stridula.

«Ti sembra il momento di ricordarmi una cosa del genere?!? Aiutami, Hope! Se non vuoi farlo per me, fallo per Leonel! So che lo ami ancora, allora salvalo!», le gridò contro stringendo di più Viktor e sforzando l'unico braccio libero pur di tenere il marito in equilibrio.

«È troppo tardi, Tatiana. Leonel è morto». Hope raggiunse il palco e si inginocchiò. «Non temere. Potrai riaverlo. Presto sarai morta anche tu», le spiegò.

In breve assunse la forma ferale. Ringhiò contro Tatiana, con i denti le strappò il bambino dalle braccia.

Tatiana udì il suo piccolo gridare e piangere, perciò si gettò in avanti per riprenderlo ma incontrò solo il vuoto e cadde con le ginocchia contro un freddo pavimento di pietra levigata.

Alzò la testa e si accorse di non essere più in casa sua, al riparo dal freddo e dalla tempesta, bensì nei corridoi del castello di re Galtur. Era tornata nel Regno Carminio, il luogo dove suo marito era stato ucciso dai demoni.

Gridò ancora e si alzò. Era scalza e il suo lungo ed elegante vestito azzurro era ridotto ad uno straccio strappato.

Davanti a lei Hope rideva e mostrava le zanne aguzze.

«Perché?!?», le chiese urlando e tirandosi i capelli. La scena le parve familiare.

"Tutto questo è già accaduto", pensò. "Ho già vissuto questi momenti, ho sentito queste grida...", la voce di Viktor la invocò in lontananza, tra i singhiozzi e le strilla, "...ho già sentito questo pianto!".

Hope prese la rincorsa e si gettò su di lei. Le strappò via la carne e graffiò il suo viso e le sue braccia ma Tatiana non sentiva più alcun dolore. Solo la paura, e la crescente consapevolezza della verità. Lasciò che il suo corpo venisse sbranato e guardò dritta negli occhi la belva che Hope era diventata. Un'enorme lupa corvina e rossiccia, con gli occhi iniettati di sangue e l'animo carico di furia e odio. Comprese quale fosse il suo desiderio: bramava potere, lo ambiva al punto di uccidere per conquistarne almeno un po'. Voleva vendetta e rivincita e si sfogava contro chiunque. Allora fu tutto più chiaro.

Tatiana comprese il motivo per il quale Jocelyn tremasse alla sua semplice vista e poiché non osava biasimarla per le sue profonde cicatrici. Ma lei non avrebbe permesso ad una persona tanto ignobile di riuscire nel suo intento. L'avrebbe inseguita e affrontata. In quel momento il suo odio si fece esponenziale. Provava anche lei una rabbia infinita e la tremenda voglia di uccidere Hope.

La osservò divorarla, senza mai morire, ascoltando il richiamo del figlio che avrebbe sempre protetto, al costo della guerra o della stessa vita.

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