My enemies.

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Le mani erano stese lungo lo scuro banco di scuola. Era la solita giornata piovosa e nuvolosa che ti impediva di andare a giocare fuori con gli amici e questo mi innervosiva. Invidiavo, infatti, chi riusciva a trovare qualcosa da fare in casa senza annoiarsi. Nonostante le prime titubanze, anche io provai a non sentirmi chiuso in una bolla d'acqua, cercando disperatamente di non affogare sotto le urla di mia madre e mio padre; i quali si incazzavano se non avevano soldi a casa per comprare la dose.

Ed ovviamente di chi era la colpa? Mia, della scuola, dei libri e di ogni cazzata che gli passasse per la testa.

Ne avevo il terrore ormai, un terrore che si innescava ogni volta che qualcuno litigava o urlava. Sembrava di vedere negli occhi di quelle persone l'assurda vita che conducevano i miei genitori. Ma davvero si potevano definire tali? No. Loro non lo erano e non lo sarebbero mai stati, perché un genitore è colui che si prende cura dei proprio figli; e di certo non li prende a schiaffi se lo interrompono durante i propri momenti di "svago".

Il suono della campanella mi fece sobbalzare, tanto che alzai di scatto la testa da sopra il banco. Ancora un po' sovrappensiero, presi la borsa vuota e mi rialzai, sbattendo contro un ragazzo al mio fianco.

Lui era Castiel Novak, 17 anni, coetaneo e frequentante la mia stessa scuola e lezioni.

Insopportabile uomo.

Era il tipico ragazzo strano di ogni classe, fissato per la musica, studioso ma non troppo, gran lettore e soprattutto amava disegnare angeli e forme angeliche. Nessuno ne sapeva il vero motivo.

Tutti lo adoravano eppure non lo vedevi mai con qualche amico in mensa a mangiare qualcosa o semplicemente parlare vicino al proprio armadietto: ero arrivato alla conclusione che fosse così timido da voler evitare tutti.

"Fai attenzione, idiota!" gli dissi, gettandogli i libri a terra.

"Sei stato tu a venirmi contro!" sussurrò con timore. In quel momento potei notare le sue labbra appena aperte, come se volesse dire altro.

Lo guardai attentamente con il sopracciglio alzato, cercando di fargli capire che non me ne fregava niente del fatto di chi fosse andato contro chi, forse il nostro rapporto da "odio persino sentire il tuo nome" non gli era molto chiaro.

"Cazzi tuoi se non ti sei spostato, oppure sei così scemo da non volerti neanche muovere?" Replicai, non mascherando un sorriso.

Lui mi guardò male e se andò via senza dir niente, subito dopo me ne uscì anche io dall'aula, dirigendomi verso la fermata dell'autobus. Tanto, pensai tra me e me, le lezioni erano finite, quindi non restava molto da fare se non tornare a casa.

Fortunatamente, la tempesta che si era creata lasciò al suo passaggio solo grandi pozze di acqua qua e là sui marciapiedi e ai lati delle strade, cosa che ti portava a fare slalom tra una buca e l'altra come uno sciatore professionista. Come ogni giornata di pioggia, le mie scarpe ne erano rimaste completamente segnate; zuppe. Anche questa era una di quelle situazioni da mettere di diritto nella lista di "cose che odio da morire"; anche se niente avrebbe surclassato il disgusto che provavo ogni qual volta facevo ritorno in quella catapecchia.

Avrei preferito 3 ore di matematica piuttosto!

Questo era dovuto dal fatto che mio padre mi faceva paura. Forse lo si poteva considerare come una delle principali cause che mi resero così odioso; e l'unica persona per la quale desideravo sparire, non tornare mai più e ricominciare daccapo. Eppure, ciò non avvenne mai; neanche quando ero al limite, e neanche la prima volta che vidi i miei genitori quasi sul limite di un overdose, e dio solo sa perchè non li ho lasciati lì sul divano al posto di chiamare l'ambulanza.

We'll find the happiness in the hell.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora