Capitolo 63

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Sbatto la porta del mio ufficio, sento così tanta rabbia dentro di me che potrei scoppiare e fare un casino più grande di me. Kate sembra accorgersi di tutto ciò perché corre da me nella speranza di calmarmi "Chiamarla è stato un errore!" Urlo stringendo i pugni.

"Maca.. calmati, per favore" mi intima tenendo un tono comprensivo che mi fa infuriare anche di più.

"È così.. insopportabile!" Esclamo sapendo che quella parola racchiude perfettamente il concetto di Zulema Zahir.

"È Zulema Zahir! Che ti aspettavi?!" Mi chiede quasi ridendo, sembra che tutti si aspettavano una reazione simile da Zulema tranne io.

Ma in fondo, anche se non ho memoria degli italiani anni, ho sempre saputo quanto fosse stronza "Hai ragione.. è sempre la stessa.."

Le ho lasciate revisionare il caso da sole perché restare nella stessa stanza con lei era intollerabile "Qual'è la prossima mossa?" Mi chiede Kate tornando a focalizzarsi sul lavoro.

Faccio spallucce, la verità è che non ne ho idea "Andiamo a scoprirlo"

Usciamo dal mio ufficio come se niente fosse, dubito che le altre non mi abbiano sentito urlare ma davvero non me ne importa nulla. Saray è la prima a vederci raggiungerle "Ecco.. finito lo sfogo? Siamo a posto?"

Ignoro quelle domande provocatorie e guardo Lei "Avete bisogno di altro tempo per studiare il caso?"

"Sono a posto" risponde chiudendo il fascicolo e ripassandomi a Kate, si alza dalla scrivania come se niente fosse.

"Sicura?" Chiedo perplessa, mezz'ora per studiare un caso non è poi un grande lasso di tempo.

Sul suo viso, ahimè ancora bellissimo, spunta quel sorrisetto da ti prendo per il culo e mi dice "Io ricordo perfettamente tutto a memoria.. mi mancavano soltanto gli ultimi aggiornamenti" sono sicura che la frecciatina sul mio incidente non è casuale.

"Ok" ancora una volta decido di lasciar perdere, incrocio le braccia al petto e le chiedo "Come vuoi muoverti?"

"Voglio andare a parlare con lui" prende il cappotto e non si disturba nemmeno a chiedermi di andare con lei.

"Vengo con te" dico afferrando il mio cappotto dall'appendono.

"Anche se sono una stronza?" Mi chiede in un sussurro mentre le passo accanto.

Se pensa di intimorirmi sbaglia di grosso "Questo è il mio caso. Vengo con te" ribadisco più risoluta e rimanendo distaccata mi avvio verso l'ascensore con lei al seguito.

In macchina nessuna delle due proferisce parola, c'è un silenzio familiare che non rende il tutto imbarazzante.

Mi sento bene, nonostante le vampate di nervoso che mi fa venire.

Superiamo tutti i controlli e mi lascia andare per prima sapendo che il mio titolo qui a New York conta qualcosa.

Percorriamo lo stretto corridoio che ci porta alla stanza degli interrogatori del penitenziario, siamo fianco a fianco, le nostre spalle si sfiorano di tanto in tanto e quando succede è come se il mio corpo prendesse la scossa elettrica.

Do colpa ai cappotti di tessuto sintetico ma in cuor mio so che mi sto solo raccontando una serie di cazzate.

Apro la porta e quando entro mi ritrovo la mora più fastidiosa del mondo seduta dall'altro capo del tavolo "Avvocato Martín, che ci fa qui?" Chiedo sorpresa.

"Questa è la terza volta che parla al mio cliente senza il suo difensore.. veda lei" mi risponde con il solito tono arrogante e impertinente di sempre.

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