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Forse perché della fatal quiete/tu sei l'imago a me sì cara, vieni/o sera! E quando ti corteggiano liete/le nubi estive e i zefiri sereni...

L'indigeno aveva percorso un tratto di sentiero nella piantagione di caffè quando udì il gorgheggio. La melodia lo attraeva verso nord, i piedi deviarono dalla via per la baracca e affondarono nudi e secchi nella mota. Alla fine di ore e ore passate a selezionare le drupe mature del raccolto scampato all'uragano, curvo su un pavimento reso incandescente da pomeriggi di temperature di 30° – pavimento da cui doveva alzarsi per coprirlo quando alle quattro cadevano i rovesci stagionali –, il corpo aveva la pesantezza di un sasso. Un sasso teso dentro una fionda che una grande mano invisibile trascinava verso di sé nel senso inverso, avanti e non indietro.

Ne più mai toccherò le sacre sponde/ove il mio corpo fanciulletto giacque,/Zacinto mia, che te specchi nell'onde/del greco mar...

Le orecchie captavano, organi che avevano imparato la sveltezza che doveva seguire un ordine, un muoversi di uccelli. Sua madre gli aveva detto di non spingersi nella zona paludosa, ma lei era morta sacrificata anni addietro e non poteva aiutarlo. Anche se lui avesse voluto gridare il nome, la parte superiore dei denti non si scollava da quella inferiore e i piedi continuavano a portarlo oltre arbusti e nugoli di Junonia evarete, fra le fronde che gli battevano sul viso e sul corpo, e si sentiva inseguito dalla scia di gelsomino e limone degli alberi del caffè in fiore, sempre più vicino, fuori dalla realtà, a volte sussultando di fronte a un'iguana dalla testa blu e dalla cresta dentellata che faceva penzolare un ramo.

Dentro l'intrico, da cui a stento scendevano le staffilate della luce del tramonto, compariva a intervalli un viso bianco che stava sospeso.

L'ultima volontà sussultò per l'antico timore di incontrare la Signora dell'Isola che non lasciava scampo. L'indigeno tornò indietro con la mente, l'unica parte del corpo che rispondeva al suo comando, e si rivide sulla scogliera ad aspettare che il Mar dei Caraibi gli restituisse qualcosa della madre per tenerla in un medaglione.

Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme che vanno al nulla eterno.

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La mattina seguente, sul sentiero che conduceva dalle baracche dei lavoratori alla piantagione di caffè nei pressi di Turtle Fence, un drappello di uomini in un cerchio sbilenco osservava il terreno. Alcuni degli indigeni riuniti si paravano il naso dal tanfo ferroso che aleggiava per iarde.

Il giovane che era andato a chiamare il padrone tornò correndo.

Gli indigeni lo videro fuoriuscire da una curva con la sveltezza di una lucertola. Uno del drappello gridò: «Sei venuto solo quando ti diciamo di portare il padrone?»

Il giovane si appoggiò sulle ginocchia, la saliva raggrumata agli angoli di una bocca da cavallo fiacco. Dopo aver preso dei grossi respiri che si fermavano in gola senza scendere ad alleviare i polmoni, si voltò indietro.

Dopo qualche istante, dalla stessa curva uscì il signor Jones. Il rango gli permetteva di sospingere il corpo in avanti con un'andatura da Lord, il bastone che lo sopravanzava per reggergli la gamba gottosa e penetrava in un terreno ammorbidito dalla pioggia dell'alba. Non gli piaceva infilarsi nelle strade dei lavoratori con il rischio di essere assassinato e non gli piaceva insozzarsi le calzature. Gli indigeni si muovevano a piedi nudi o con pezze di tela o suole tenute su da corde che chiamavano scarpe e si lavavano nelle pozze, una concessione che lui, inglese da generazioni, non si sarebbe permesso. Non se lo permetteva da quando il padre e la cinghia gli avevano fatto perdere l'abitudine di sguazzare nelle paludi della brughiera.

Il signor Jones aveva portato con sé un amico, che si trovava lì per valutare un acquisto. L'amico, a sua volta, si era portato appresso un fucile.

All'avvicinarsi dei bianchi, il drappello si lacerò. Alcuni lavoratori finirono a destra, altri a sinistra, premuti, i piedi che calpestavano altri piedi, la tela delle camicie bianche che sfregava una contro l'altra.

Al suo aprirsi, il padrone vide un uomo sdraiato sulla schiena, le gambe larghe e le dita dure dei piedi che puntavano un cielo che aveva il colore slavato delle mattine nuove.

Il signor King riconobbe l'odore e s'immobilizzò con il fucile fra le mani. Da dov'era poteva vedere bene lo squarcio all'altezza del ventre circondato dall'odore delle feci e alcuni pezzi di intestino che uscivano ondulati come i rami delle mangrovie. 

Di Pesce e di UccelloDove le storie prendono vita. Scoprilo ora