48. (PARTE SESTA)

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La Sirena chiamò i tre venti al suo cospetto

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La Sirena chiamò i tre venti al suo cospetto.

Era emersa nei pressi della Stanza, con il mare caldo e burrascoso, e guardava in lontananza, oltre la barriera corallina, la linea bianca che delimitava, nell'ultima luce, una distesa di vetro smerigliato verdazzurro e sopra la lastra di grigio percorsa dalle nuvole.

«Tu» disse al Williwaw, «consegnerai il fiore alla sacrificata.» Porse l'ibisco di stoffa al nulla, ritrasse la mano e il fiore oscillò nell'aria senza cadere.

«Tu» disse al Buran – l'Aliseo benché soffiasse non le obbediva – «porterai questo allo stregone.» La Sirena sollevò il disegno e lo mostrò. «Ti ho spiegato come arrivarci.»

Affidati i compiti ordinò: «Andate», ed essi si divisero, l'uno attraversando i cespugli sulla scogliera in un crepitio, fascine secche che si spezzano; l'altro molto in alto a piegare le palme e le chiome delle altre specie di alberi.

Il Williwaw discese sulle strade, era la cosa che sapeva fare meglio: precipitò con la forma forzuta ad agitare i vetri delle ville, le foglie di palma e gli stracci usati per schermare le finestre delle baracche; rovesciò i vasi in uno schianto di coccio e terra frusciante; condusse i secchi di legno a sbattere ovunque; spinse i remi a cadere dalle pareti a cui erano poggiati per asciugare e i fiori a turbinare, sfiorando con il ventre invisibile la terra, per poi fischiare sul mare fluttuante, curvare e ricominciare, cercando il volto e il corpo usciti dalla mina della matita della Sirena.

Il Buran prese la via della foresta impenetrabile, agitando i rami, le foglie e sfilacciando i fiori, separando i petali dai pistilli; rovesciò le pietre che non appartenevano più alle doline, cadute in valanghe quasi silenziose; portò gli uccelli incontrati con sé finché trovò il bucato steso e lo arruffò, rigirandolo; fletté gli steli delle piante officinali fino a terra, dove li tenne in una posa di tortura, e bussò alla porta: era un vento educato.

Lo stregone, che stava cenando con una zuppa calda, lo udì e andò ad aprire. Il Buran entrò e fece cadere il burattino di ossa sul pavimento, e premette, come aveva fatto con gli steli delle erbe, il foglio sul tavolo, rimanendo in piedi accanto al piatto.

Lo stregone raccolse il burattino dopo essersi pulito gli occhi dal pulviscolo gelido che il soffio gli aveva gettato sulla faccia e si accostò al tavolo e guardò il disegno. Lo prese, lo piegò, raggiunse la cassapanca, sollevò e indossò il mantello con il cappuccio.

Lasciò il pasto freddo su cui soffiava il Buran – lo scherzo che faceva ai Kozlov in inverno – e si incamminò verso la città.

Di Pesce e di UccelloDove le storie prendono vita. Scoprilo ora