Avery attese in piedi senza trepidazione né speranza. Vedeva il mare e la notte come le cose che erano state prima di incontrare Lusia, cose che per lui oscillavano fra l'utilità e l'inutilità. Tante altre non gli suscitavano più i sentimenti che facevano da corollario alla sua lietezza. Tempo addietro un fetonte codabianca gli aveva rammentato l'arrivo sull'isola e innescato il tremore dell'aspettativa e del sollazzo; i campi di canna da zucchero avevano rappresentato la stanchezza del dopo e i vecchi alberi erano stati promesse e progetti.
Pigiò la corona che azionava la cerniera, la calotta si aprì, e il capitano studiò il quadrante dell'orologio e strinse i denti. Centinaia di femmine si comportavano allo stesso modo, nessuna che sapesse arrivare in anticipo. E poi pretendono che le si accolga col sorriso dell'indulgenza.
Lenore lo fece arrabbiare per altri cinque minuti, infine apparve con un abito marrone con le maniche lunghe, scelto per camuffare i futuri resti dei rotolamenti e l'acqua di mare agli occhi della madre e delle serve. Non si era agghindata per andare a un incontro segreto da storia licenziosa, non aveva il cappuccio a coprirle il giallo dei capelli.
Avery approvò e vide la giovane venire verso di lui con la camminata scomposta delle scarpe scomode – MacMourrog gli aveva dato una lezione su quanto fosse difficile essere donna – e del tentennamento. Ci sta ripensando. Il cielo non voglia che debba riempirla di complimenti. Non è il tempo. Scongiurò l'eventualità andandole incontro, la cinse e la confuse. Una volta una donna gli aveva detto: «Capitano, mi ingarbugliate i pensieri», ed era una poetessa gallese in vacanza a Londra.
Avery cercò il viso di Lenore che gli stava davanti. La baciò con il trasporto che era rimasto, in un'azione meccanica ripetuta centinaia di volte. Per proseguire, dovette recuperare il ricordo della rotondità accennata e selvatica del frutto della giovane spagnola.
Lenore rimase imbambolata a sorbire il bacio di un audace. L'aveva sospettato che Lennox fosse un tremebondo che conduceva i preliminari di un amplesso nello stesso modo delle corse fiacche dei suoi fanti.
Avery chiese il permesso di spogliarla.
Kozlov rivide alla rovescia l'intero rituale di vestizione della Sirena. Avrebbe dovuto voltarsi, fare la stessa cosa che aveva fatto Markin. Non poteva e non voleva, l'ira lo inchiodava nell'oscurità oltre la porta, lo sguardo attraverso la grata. In quegli istanti rapidi – Avery slacciava il corsetto con la stessa abilità usata per istruire i terrazzani sugli innumerevoli tipi di nodi marinari – Kozlov non pensò alla Sirena.
La Sirena era là a rivivere gli stessi urli rauchi e interni che gli era toccato subire con la sacrificata. Questa era una donna bianca con il ventre un po' rigonfio e strani seni bitorzoluti che puntavano gli occhi del capitano quando s'era chinato a toccarli con la bocca. Ma aveva due gambe separate, con i piedi e le unghie, non un muscolo pesante e scaglioso.
Adesso lei padroneggiava parte del Buran e parte dell'Aliseo. Il suo Vento non parlava e il Buran pareva essere di poche parole, scandite nella stessa lingua del bassopiano sarmatico. Li scagliò sui corpi nudi degli amanti, che rabbrividirono.
Avery gioì. «Una brezza fredda, stasera. Ci scalderemo presto.» Per galanteria prese la giacca nera, fece sollevare la giovane e gliela spinse sotto la schiena e le natiche.
Lenore, stordita dal profumo di colonia e da gesti precisi senza pause, annuì. Non ringraziò.
Si unirono due volte, la seconda dopo una pausa di un quarto d'ora. Avery ritardò l'estasi di lei e quasi la fece svenire. L'aveva fra le mani, avrebbe potuto strangolarla; Lenore aveva perduto gli istanti utili ad allontanare l'assassino. Ma Avery scelse per lei un'altra punizione.
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Di Pesce e di Uccello
MaceraGrand Cayman, giugno 1847. Durante la ricostruzione successiva all'ennesimo uragano, sull'isola giunge una straniera che ben presto diverrà la nemica contro la quale la Sirena del Mar dei Caraibi dovrà combattere per difendere se stessa e l'arcipela...