Capitolo 84: Il Signore Oscuro

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Erano passati ormai più di due mesi dalla morte dei fratelli Prewett. I funerali si erano svolti un paio di giorni dopo, in una grigia e piovosa giornata di marzo. Sembrava che anche il cielo piangesse la loro scomparsa.
In molti erano venuti a dare il loro ultimo saluto ai due ragazzi, perché erano tante le persone che li conoscevano e li apprezzavano. Fabian e Gideon erano quel genere di ragazzi a cui si vuole bene dal primo istante. Allegri, spiritosi, gentili, coraggiosi, altruisti, e un migliaio di altre cose che facevano sì che tutti gli volessero bene.
Fu una delle giornate più tristi per tutti.
I funerali si tennero nella cittadina in cui i ragazzi avevano vissuto per tutta la vita e vi presero parte non solo gente comune, ma anche molti funzionari del Ministero, tutto il dipartimento Auror, e naturalmente tutto l'Ordine della Fenice.
Quella notte in cui Dorcas era arrivata al Quartier Generale scalza, insanguinata e sconvolta, Sirius, Moody e altri erano subito andati alla villa dei Prewett, mentre Emmeline accorreva per valutare la salute della ragazza.
L'Ordine arrivato sul posto non poté far altro che accertare la morte dei due e portar via i corpi, mentre Emmeline assicurava che Dorcas non era fisicamente ferita, solo sotto shock.
Quando si era svegliata aveva raccontato quello che era successo, dopodiché Moody aveva detto ad Emmeline di somministrarle un calmante e accompagnarla in una delle stanze di sopra, ma Dorcas non ne aveva voluto sapere.
Aveva detto di aver solo bisogno di una doccia e di vestiti puliti, poi sarebbe stata pronta per cominciare le indagini. Era decisa a trovare chiunque fosse stato ad uccidere le uniche persone che aveva mai amato dopo sua madre.
Non le era rimasto più nulla. Le avevano portato via tutto. Ed ora, che non aveva più nulla da perdere, e nessuno per cui valeva la pena di vivere, si era ripromessa che avrebbe fatto tutto quello che era in suo possesso per uccidere quanti più Mangiamorte poteva, e nel frattempo scoprire chi era stato ad uccidere Gideon e Fabian.
Nessuno l'aveva più vista versare una lacrima. Nemmeno al funerale. Il suo viso e la sua espressione erano costantemente di marmo. Se prima dava l'impressione di essere dura e poco socievole, ora sembrava aver perso tutta la sua umanità e ogni briciola di cuore. Non un'emozione solcava il suo viso, come se non provasse mai nulla. E questo la rendeva ancor più spaventosa.
Se quando sua madre era stata uccisa aveva creduto di essere stata consumata dall'odio e dalla sete di vendetta, si era dovuta ricredere.
Nulla era paragonabile a come si sentiva in quei giorni. Quando aveva perduto la madre aveva perso la testa all'inizio, ma Gideon era riuscito a salvarla da se stessa. L'aveva tirata fuori da quel turbinio di emozioni contrastanti che provava continuamente, e l'aveva fatto con la sua esuberanza e il suo amore per lei. Ma ora Gideon non era più lì a salvarla. Nessuno l'avrebbe più presa per mano e l'avrebbe aiutata a risalire oltre le tenebre che stavano invadendo il suo cuore. Era sola, e lei lo sapeva, ma aveva accolto quelle tenebre con gioia, perché quando era concentrata sulla vendetta, il dolore era più sopportabile.
Non le importava più nulla della guerra, di rischiare continuamente la sua vita. Pensava solo a trovare i colpevoli e non si preoccupava se si lasciava alle spalle una scia insanguinata e i cadaveri della peggior feccia del mondo magico e dei Mangiamorte che riusciva a scovare.
Aveva preso a svolgere delle indagini per conto suo: integrava le informazioni che riusciva ad avere al Ministero con quello che scopriva da sola; camuffava il suo aspetto per entrare nei pub frequentati dalla gentaglia, spiava, ascoltava conversazioni, e alla fine colpiva.
Si ritrovò ad avere tra le mani assassini, ladri, criminali di ogni tipo, tutta gente collegata ai Mangiamorte. Tutti pesci piccoli, ma che gli permettevano di crearsi una fitta rete di informazioni e che la portavano passo dopo passo ad avvicinarsi sempre di più a qualche elemento più sostanzioso delle fila di Voldemort.
Ogni volta che riusciva a catturare qualcuno che avesse delle vere informazioni, faceva in modo che i Mangiamorte sapessero che dietro c'era lei. Lasciava sempre le sue iniziali, DM, impresse sui corpi dopo essersi assicurata di aver stillato ogni più piccola informazione dalle vittime. Era decisa a far sapere agli assassini dei fratelli Prewett che lei stava arrivando, che li avrebbe stanati uno per uno.
E così divenne ancora più temuta tra le fila del Signore Oscuro, tanto che alcuni avevano preso a chiamarla l'Angelo della Morte, perché era bella come una creatura divina, ma letale come la più affilata delle lame.
Nessuno era riuscito a catturarla, e quei pochi che erano riusciti ad avvicinarsi tanto da provarci non erano sopravvissuti per raccontarlo. Ormai stava combattendo una guerra tutta sua, dalla quale sapeva non sarebbe sopravvissuta, ma non le importava. L'unico suo obbiettivo era quello di morire portandosi dietro quanti più Mangiamorte poteva.
Una volta, nel suo periodo più buio dopo la morte della madre, aveva detto a Gideon di avere un'anima oscura, ora era sicura di non averla neanche più un'anima.
In quell'occasione lui le aveva assicurato di percepirla forte e chiara, tutt'altro che oscura, e lei alla fine ci aveva creduto. Ma ora seppe di averla perduta per sempre, frantumata in mille pezzi insieme al suo cuore quella notte di marzo.
Ogni tanto, dopo aver ucciso un assassino, o aver spremuto fino all'ultima goccia di informazioni a suon di incantesimi da qualche miserabile che si era lasciato sfuggire qualche cosa di troppo in uno di quei sudici pub che frequentavano di solito, una vocina dentro la sua testa le diceva che Gideon non avrebbe voluto che diventasse quello che era diventata, un'assassina spietata e senza cuore, ma lei si rispondeva che non avrebbe più potuto sapere cosa volesse Gideon perché lo avevano ucciso ed ora giaceva sepolto sotto cumuli di terra accanto al suo amato fratello.
Ogni volta che un Mangiamorte andava da Voldemort per metterlo al corrente di un'altra sua spia o un'altra recluta uccisa, il suo odio verso la ragazza cresceva sempre di più. All'inizio era quasi affascinato da lei, ammirava il suo coraggio e il suo sangue freddo, ma dopo un po' la cosa iniziò a diventare fastidiosa.
Stava iniziando a perdere troppe spie e troppe pedine utili e incominciò a pensare che la ragazza potesse riuscire ad arrivare ai suoi uomini più fidati. Ogni elemento della sua cerchia più stretta aveva un ruolo specifico ed era utile in qualcosa. C'erano svariati membri del Ministero che erano fondamentali per farlo salire potere, membri di spicco della società, utili non solo per muoversi con facilità all'interno della società stessa, ma anche per le loro camere blindate alla Gringott e i loro portafogli gonfi.
Non poteva e non voleva quindi perdere pedine preziose sulla sua scacchiera.
Era a questo che stava pensando in quel momento il Signore Oscuro, mentre veniva informato da uno dei suoi Mangiamorte che l'Angelo della Morte aveva colpito ancora.
«Si sta avvicinando sempre di più a scoprire chi è che ha ucciso gli Auror, mio Signore» disse l'uomo e lui percepì tutto il timore che provava verso la ragazza.
«Quella ragazzina sta diventando un problema» sibilò contrariato.
«Portami Codaliscia» ordinò dopo qualche attimo di silenzio.
«Si, mio Signore» mormorò l'uomo inchinandosi e poi lasciando la stanza.
Quel giorno era cominciato così bene, pensò infastidito.
Era finalmente riuscito ad andare avanti con il suo progetto che lo avrebbe portato all'immortalità, ed ora ci si metteva quella ragazzina a dargli scocciature.
Avrebbe dovuto occuparsene lui stesso, visto che i suoi Mangiamorte non sembravano in grado.
«M-mi avete c-chiamato, mio Signore?» balbettò impaurito Peter Minus avvicinandosi.
Voldemort si voltò a guardarlo con disgusto.
Aveva sempre avuto delle remore sul ragazzo, fin da quando Piton glielo aveva presentato. Pensava fosse un ragazzino impaurito e debole che sarebbe morto al primo combattimento, invece aveva dovuto ricredersi. Perché Peter Minus aveva un vero talento naturale nello sgusciare via da situazioni spiacevoli e non prendeva mai parte ai combattimenti. Rimaneva nell'ombra a fare quello che sapeva fare meglio: spiare e raccogliere informazioni.
Si era rivelato molto utile a dispetto di quello che tutti avevano creduto all'inizio.
«Si Codaliscia, vieni avanti» disse Voldemort mettendosi a sedere su una poltrona.
Il ragazzo avanzò, timoroso.
«Ho un problema, Codaliscia» proruppe Voldemort congiungendo le lunghe dita delle mani sotto il mento.
«U-un p-problema, mio S-Signore?» mormorò Peter sempre più spaventato.
«Si esatto. E questo problema porta il nome di Dorcas Meadows» disse Voldemort facendo sobbalzare il ragazzo, e poi proseguì «la ragazza sta diventando davvero una scocciatura ed è il caso che io prenda dei provvedimenti prima che diventi pericolosa.»
«C-certo mio Signore» sussurrò Peter.
«Ho bisogno che tu scopra dove si nasconde quando non è in giro a far fuori i miei uomini. Voglio sapere tutto su come vive, così che poi possa occuparmene personalmente» disse l'uomo dagli occhi rossi.
«M-ma mio Signore... lei... lei è astuta e non sarà facile... scoprire qualcosa... n-non credo che io sia adatto» balbettò Peter spaventato all'idea di dover avere a che fare con Dorcas.
«So che cos'è che temi, Codaliscia. Tu hai paura di trovarti faccia a faccia con lei, come è successo ad altri prima di te. Ma cosa succederà se nessuno riesce a catturarla? Te lo dico io, caro Codaliscia: la ragazza farà fuori uno ad uno tutti i miei informatori, e a chi arriverà prima o poi?» disse Voldemort scrutandolo dalla sua poltrona, e quando quello scosse la testa, continuò «a te, mio infido servitore. Sappiamo già che i tuoi amici sospettano di una spia nell'Ordine, e la signorina Meadows scoprirà che quella spia sei tu. E sai cosa accadrà allora? Se sei fortunato ti ucciderà lei dopo aver rivelato ai tuoi amici che sei stato tu a tradirli, se sei sfortunato sarò io a punirti per aver rifiutato un mio compito e averle permesso di togliere la mia unica fonte d'informazioni all'interno di quel gruppo di traditori. Cosa ne pensi, Codaliscia? Accetti di eseguire i miei ordini?»
Peter stava letteralmente tremando e sudando freddo. Che cosa avrebbe fatto se Dorcas lo avesse scoperto? Lo avrebbe davvero rivelato ai suoi amici? E loro avrebbero capito il motivo per cui aveva preso quella difficile decisione? No, non avrebbero mai capito... gli sembrava di sentirli dentro la sua testa: Sirius si sarebbe infuriato, sarebbe andato fuori di testa dalla rabbia; James forse alla fine lo avrebbe anche potuto perdonare, ma sarebbe stato così deluso da lui che probabilmente non sarebbe più riuscito a guardarlo in faccia; Remus, essendo il più ragionevole, forse avrebbe provato a capirlo, ma anche lui come James sarebbe rimasto deluso.
Come potevano capire loro? Loro che erano sempre così coraggiosi, a cui non pesava rischiare la vita per gli altri. No, non poteva assolutamente permettere che lo scoprissero se voleva continuare a vivere.
«C-certo mio Signore, mi metterò s-subito a lavoro per scoprire qualcosa su D-Dorcas» balbettò inchinandosi.
«Bravo Codaliscia. Il tuo lavoro è molto prezioso. Ora vai, e tienimi aggiornato» disse Voldemort congedandolo con un gesto della mano.
Peter indietreggiò continuando a inchinarsi goffamente e poi se ne andò, cercando di allontanarsi da Voldemort il più in fretta possibile.
Voldemort non si fidava di quel ragazzino senza fegato e senza un briciolo di coraggio, d'altronde non si fidava di nessuno se non di se stesso, ma si stava rivelando davvero molto utile e in ogni caso sapeva che aveva così paura di lui da eseguire qualsiasi ordine lui gli avrebbe dato.
Ora che quel problema era stato quasi risolto, tornò a concentrarsi sul suo progetto più importante.
Tirò fuori dalla tasca del mantello due oggetti e li osservò rigirandoseli tra le mani. Erano un medaglione e una piccola coppa d'oro, due dei cimeli più importanti e preziosi del mondo. Ed erano suoi. Il medaglione era suo di diritto, in quanto era l'ultimo erede di Serpeverde, e la coppa era entrata in suo possesso qualche anno prima. Ricordava ancora benissimo la gioia che aveva provato quando l'aveva vista tra le mani di quella stupida donna che non faceva altro che tenerla in una stupida scatola nascosta in mezzo ad altre migliaia di cianfrusaglie. Un oggetto raro e prezioso come la coppa di Tosca Tassorosso chiuso in una scatola. Era uno spreco enorme. Era da tempo che lui aveva deciso di riunire tutti e quattro gli oggetti dei fondatori di Hogwarts, e ce l'aveva quasi fatta. Se non fosse stato per quella stupida spada di Grifondoro li avrebbe avuti tutti. Ma non fa niente, si disse. Gli altri erano in suo possesso ed erano serviti per uno scopo molto importante, una cosa che nessun altro mago aveva mai fatto prima. Lui si era spinto dove nessuno aveva mai osato spingersi.
E ora doveva fare in modo che quegli oggetti così preziosi fossero al sicuro.
Alzò la coppa per guardarla più da vicino. Non aveva dubbi su dove doveva stare: doveva metterla in uno dei posti più sicuri del mondo magico, dove si sarebbe mimetizzata facilmente tra altri tesori, così da non destare sospetti e rimanere protetta. Nessuno avrebbe mai avuto il coraggio o avrebbe provato a rubarla in quel posto, era semplicemente impossibile.
Il medaglione invece, voleva metterlo in un luogo significativo per lui. Nessuno poteva risalire a quel posto perché nessuno conosceva i suoi antenati o la sua storia.
Quella grotta sarebbe stata il nascondiglio perfetto, una volta apportate le giuste modifiche e prese le precauzioni adatte.
Messi al sicuro questi ultimi due oggetti, il suo piano sarebbe stato quasi concluso. Mancava solo un ultimo tassello, ma ci avrebbe pensato poi.
«McNair» chiamò ad alta voce.
«Si, mio Signore?» rispose l'uomo qualche attimo dopo aprendo la porta.
«Chiamami Bellatrix e Rodolphus. Ho bisogno di parlargli» disse.
McNair annuì e sparì dietro la porta.
Cinque minuti dopo entrarono i coniugi Lastrange.
«Avete chiamato, mio Signore?» domandò Bellatrix inchinandosi.
«Si. Ho un compito importante da affidarvi. È della massima importanza e soprattutto riservatezza. Nessuno al di fuori di voi deve sapere ciò che sto per chiedervi» disse Voldemort serio. Bellatrix fremeva d'orgoglio ed eccitazione.
«Devo depositare un oggetto nella vostra camera blindata alla Gringott. Mi serve che sia ben nascosta al resto del mondo e che si mimettizzi alla perfezione in mezzo ad altri oggetti di valore. Pensate di poter fare questo per me?»
Ovviamente non era una vera richiesta, i due lo sapevano bene. Era più una velata minaccia. Il loro Signore li stava mettendo al corrente dell'importanza di quell'oggetto e quindi delle conseguenze che ne sarebbero scaturite se qualcosa fosse andare storto.
«Assolutamente, mio Signore» affermò Rodolphus gonfiando un po il petto.
«Ne saremmo onorati» aggiunse Bellatrix quasi con le lacrime agli occhi. Era sicura che il suo Signore si fidasse così tanto di lei da affidarle un oggetto di estremo valore, e questo la riempiva d'orgoglio.
«Bene. Voglio che aggiungiate delle fatture per proteggere questo oggetto. Dubito seriamente che qualcuno possa anche solo pensare di provare a rubare alla Gringott, ma le precauzioni non sono mai troppe.
Se dovesse succedere, il ladro non deve uscire vivo da lì. Avete messo un drago a protezione della camera vero? Bene, voglio che ve ne occupiate subito allora» disse Voldemort prendendo una scatola e mettendoci dentro la coppa.
Poi la porse a Bellatrix.
«Sarà fatto mio Signore. Ce ne occuperemo immediatamente. Non dovrà preoccuparsi di nulla» esclamò la donna.
«La nostra è una delle camere blindate meglio protette. Sarà al sicuro qualsiasi cosa vogliate custodire, mio signore» aggiunse il marito fiero.
«Bene, allora andate. E quando avrete finito avvertitemi» disse Voldemort e i due si congedarono.
Ora bisognava pensare al medaglione. Aveva già messo alcune protezioni nella grotta, mancava solo il tocco finale. Per quel lavoro però non poteva usare uno dei suoi uomini. Aveva bisogno di qualcuno sacrificabile. O forse di qualcosa, penso sorridendo maligno.
«Black!» chiamò ad alta voce, fissando il medaglione.
Qualche istante dopo, Regulus Black fece il suo ingresso nella stanza. Era più piccolo di Peter Minus ma non mostrava nemmeno un briciolo della sua paura nel trovarsi al cospetto del Signore Oscuro.
Essendo un Black era molto bravo a mascherare i suoi sentimenti, e si era ritrovato a ringraziare la rigida educazione che i genitori gli avevano impartito, perché era da un po che provava un profondo disgusto per quell'uomo e per tutto quello che stavano facendo lui e i suoi compari. Ma sapeva di non poter far nulla. Un Mangiamorte è per sempre, non si torna indietro. Sapeva di essere costretto ad eseguire gli ordini fino alla fine. Non aveva avuto il coraggio di ribellarsi quando ne aveva avuto l'occasione, quando suo fratello Sirius gli aveva offerto aiuto, e ormai il suo destino era già segnato. Ogni tanto si ritrovava a pensare che gli sarebbe piaciuto aver almeno un po del coraggio del fratello.
«Black, immagino che in casa vostra voi abbiate un elfo domestico, dico bene?» gli chiese Voldemort.
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia, perplesso, poi rispose «sì, mio Signore. È un po vecchio, ma fa ancora bene il suo lavoro.»
Voldemort si aprì in un ghigno soddisfatto e disse «proprio quello di cui ho bisogno. Voglio che tu mi porti il tuo elfo domestico. Mi serve una creatura insignificante per un lavoro della massima importanza.»
Regulus era sempre più confuso. Perché se il lavoro era così importante voleva un elfo? Perché non farlo fare ad uno dei suoi uomini?
Forse era qualcosa di pericoloso e Voldemort non voleva perdere altri uomini senza motivo, gli serviva qualcuno che potesse essere sacrificato senza che nessuno ne sentisse la mancanza, qualcuno che potesse essere rimpiazzato.
«Certo, mio Signore. Sarò onorato di offrire a voi il mio servitore» rispose il ragazzo mettendo a tacere i suoi pensieri. Non avrebbe comunque potuto rifiutare, non senza scatenare l'ira del suo padrone.
«Bravo ragazzo. Portalo a me questa notte a mezzanotte. Non serve che tu sappia altro» disse Voldemort con ancora quel ghigno soddisfatto in viso.
Il ragazzo annuì e uscì, mille pensieri in testa e un brutto presentimento che gli fece chiudere lo stomaco.
Voldemort guardò di nuovo il medaglione e si sentì invadere da una gioia selvaggia. Entro l'indomani mattina il suo piano sarebbe stato quasi concluso.
Nulla e nessuno avrebbe più potuto sconfiggerlo dopo quel giorno.
«Grazie ai miei preziosi cinque Horcrux sono finalmente immortale. Il mago più potente del mondo» disse ghignando guardando il medaglione.
Fuori dalla porta, Regulus sbarrò gli occhi spaventato: Voldemort era immortale... nessuno avrebbe più potuto ucciderlo neanche se ci fosse stato qualcuno potente quanto lui! Nemmeno Silente avrebbe più potuto far nulla allora! Ma come diavolo era possibile? Aveva nominato una parola che non aveva mai sentito... Horcrux... doveva scoprire cos'erano.
Si smaterializzò davanti a Grimmauld Place ed entrò in casa sua.
Sperava di riuscire a trovare il significato di quella parola in uno dei libri di magia oscura che i suoi genitori tenevano nel ripiano più in alto della loro biblioteca.
Passò il resto della giornata a sfogliare quei libri polverosi e quando stava per arrendersi e lasciar perdere, ecco che quella strana parola gli saltò agli occhi. Subito incominciò a leggere e ad ogni parola il cuore gli batteva sempre più forte: «un Horcrux è un oggetto dentro il quale il mago o la strega che cercano l'immortalità nascondono un pezzetto della propria anima.
Grazie ad esso, se il corpo della persona che l'ha creato venisse colpito o distrutto, il frammento di anima resterebbe intatta e legata alla terra, rendendo di fatto quella persona immortale.»
Ecco che cosa aveva fatto Voldemort... aveva diviso la sua anima in più parti e ne aveva messo dei pezzetti dentro ad alcuni oggetti. Doveva essere per quel motivo che gli aveva ordinato di prestargli il suo elfo domestico. Voleva usarlo per nascondere uno dei sui preziosi Horcrux.
Rimise apposto i libri e salì nella sua stanza. Quando arrivò davanti alla porta però, esitò.
Guardò il pianerottolo e l'altra porta poco più avanti, alla fine lasciò cadere la mano dalla maniglia e si diresse silenziosamente verso l'altra stanza. Sulla porta c'era ancora scritto il suo nome: Sirius.
Una fitta al petto lo attraversò, ma cercando di ignorare il dolore entrò.
Tutto era rimasto esattamente uguale a come era quando suo fratello viveva lì, sembrava come se Sirius fosse appena uscito sbattendosi la porta alle spalle.
I suoi genitori non erano riusciti a togliere nulla. Sirius, come ultimo gesto di disobbedienza e come ultimo affronto, aveva usato un incantesimo di adesione permanente su tutto ciò che era in quella stanza. Sua madre era andata su tutte le furie quando aveva scoperto di non poter togliere quelle oscenità dal muro. Regulus entrò e si sedette sul letto.
Quante volte da bambino era corso in quella stanza e si era rifugiato in quel letto accanto a suo fratello quando credeva che nel suo armadio ci fosse un mostro.
Quante ore avevano passato a giocare seduti su quel tappeto.
Quante storie Sirius gli aveva letto sdraiati per terra o spaparanzati sul letto.
Gli sembrava la vita di un'altra persona. Come se quel bambino non fosse stato lui.
Non aveva mai rimpianto la scelta di sacrificarsi per salvare la vita di suo fratello, almeno fino a qualche tempo prima, quando lo avevano costretto ad uccidere una famiglia di babbani composta da madre, padre e due bambini.
Quando aveva scagliato l'Anatema sui due ragazzini si era sentito come se avesse appena ucciso i bambini che erano stati lui e Sirius.
Aveva visto il fratello più grande pararsi davanti al più piccolo per proteggerlo, senza nemmeno piangere, e davanti ai suoi occhi erano apparsi lui e Sirius.
Aveva dovuto chiudere gli occhi e scagliare l'incantesimo perché sapeva che altrimenti gli altri Mangiamorte avrebbero raccontato a Voldemort della sua codardia e ne avrebbe pagato le conseguenze.
Ma quel gesto così crudele lo aveva segnato nel profondo e quel giorno aveva finalmente aperto gli occhi e visto il mondo come lo vedeva Sirius: quelle erano tutte persone malvagie, senza un briciolo di umanità e con degli ideali assurdi. Perché era assurdo assassinare due bambini.
E Regulus aveva provato così tanto disgusto capendo che stava diventando come loro.
Ripensò a quello che aveva appena scoperto di Voldemort, al fatto che fosse diventato immortale e un brivido di paura lo scosse fin nel profondo. Nessuno avrebbe potuto più cambiare le cose se quell'essere non poteva essere ucciso.
Lui non sarebbe mai stato libero. Avrebbe dovuto uccidere altri bambini. Forse alla fine lo avrebbero costretto ad uccidere davvero suo fratello. Sapeva che non lo avrebbe mai fatto, non ci sarebbe mai riuscito.
Guardò l'orologio e vide che erano le undici e trenta. Si alzò e si diresse in cucina, lanciando un ultimo sguardo alla stanza prima di chiudersi la porta alle spalle.
Ormai aveva preso la sua decisione.
Entrò in cucina e andò verso la porta dove si trovava la stanza di Kreacher, il suo elfo domestico.
«Padron Regulus padrone» disse l'elfo inchinandosi appena lui aprì la porta.
«Kreacher, ho un compito per te. È una cosa molto importante che nessuno deve mai sapere. Nessuno, nemmeno i miei genitori. Hai capito?» disse Regulus serio.
«Certo, padron Regulus. Kreacher mantiene i segreti e obbedisce ad ogni ordine» rispose l'elfo inchinandosi di nuovo.
«D'accordo. Ora ti porterò dal Signore Oscuro. Ha richiesto espressamente di te per un compito importante. Dovrai fare esattamente quello che lui ti dice, poi quando avrà finito devi tornare a casa. Torna immediatamente a casa, Kreacher, va bene?» ordinò il ragazzo con una fitta al cuore.
Avrebbe più rivisto il suo elfo domestico? Lo stava mandando a morire?
«Certamente padrone. Kreacher vive per servire la nobile casata dei Black» esclamò orgoglioso.
«Va bene. Allora andiamo, ti porto da lui. Ci rivediamo qui in cucina appena il Signore Oscuro ti avrà lasciato solo. Torna a casa solo dopo che lui se ne sarà andato» si raccomandò Regulus.
Si prese un attimo per guardare quella creatura che si stava di nuovo inchinando e mormorava nuovi elogi alla sua nobile famiglia. Era in quella casa da prima che lui nascesse, venerava la sua famiglia e in particolar modo sua madre, era sempre stato gentile con lui, e ora lo stava mandando probabilmente a morire. Non avrebbe mai pensato che fare una cosa del genere lo facesse stare così male.
Dovette farsi forza, fare un bel respiro e rimettersi in faccia la maschera da Mangiamorte, quella seria e composta che indossava ogni volta che usciva di casa. Poi posò una mano sulla spalla ossuta dell'elfo e si smaterealizzò.
Voldemort era già fuori dalla vecchia villa che li aspettava.
«Sei in anticipo Regulus» disse non appena vide il ragazzo.
«Mi piace essere preciso, mio Signore» fece Regulus con un inchino.
«Molto bene, molto bene» mormorò l'uomo spostando poi lo sguardo sull'elfo.
Regulus si costrinse a rimanere immobile e con il volto inespressivo, cercando di mettere a tacere il tormento che provava dentro.
«Andiamo allora, elfo. Sono davvero deliziato da te, mio giovane seguace. Il tuo onore e la tua lealtà mi fanno molto piacere. Continua così e potresti davvero diventare uno dei miei Mangiamorte più fidati» disse Voldemort sorridendo.
«Grazie mio Signore, è un vero onore per me» rispose Regulus inchinandosi.
Poi si voltò verso l'elfo, che iniziava ad essere un po spaventato, e guardandolo negli occhi mormorò in modo che anche Voldemort sentisse «ok Kreacher, fai esattamente quello che ti ho detto. È un onore per noi essere stati scelti dal Signore Oscuro per questo compito, quindi obbedisci ed esegui gli ordini.»
«Certo, padron Regulus, ai vostri ordini» rispose l'elfo con voce gracchiante e si inchinò di nuovo.
«Andiamo» comandò Voldemort e l'elfo, dopo un'ultima occhiata al suo padrone, si avvicinò all'uomo.
Si aggrappò all'orlo del suo mantello e un attimo dopo sparirono.
E mentre Regulus tornava a casa sperando con tutto il cuore che quella non fosse l'ultima volta che vedeva il suo elfo, Voldemort e Kreacher apparivano in una grotta completamente buia.
L'elfo iniziò a tremare continuando a reggere l'orlo del mantello del mago, che senza rivolgergli una parola accese la punta della bacchetta e prese un piccolo pugnale d'argento. Si incise sul braccio un piccolo taglio e lo passò sulla roccia, un attimo dopo Kreacher vide che davanti a loro si era creato un arco. Seguì Voldermort all'interno della caverna dove un lago nero si stagliava in ogni direzione, così grande da non vederne la sponda opposta.
Il mago oscuro camminò sul bordo della grotta per qualche minuto, poi si fermò e stese una mano sull'acqua.
Subito apparve una grossa e spessa catena che dalla sua mano finiva nel lago. Kreacher lo vide fare un movimento con la bacchetta e la catena incominciò ad arrotolarsi ai suoi piedi. Un attimo dopo dall'acqua fuoriuscì una piccola barchetta.
«Sali» ordinò Voldemort e l'elfo obbedì.
Quando anche il mago si fu seduto a bordo, la barca incominciò a muoversi verso il centro del lago.
Kreacher prese a tremare più forte vedendo la sponda che si allontanava sempre di più.
Alla fine la barca toccò una specie di isolotto al centro del lago. Voldemort gli disse di scendere e lo stesso fece lui. Alla luce della bacchetta Kreacher vide che al centro dell'isolotto, appollaiato sugli scogli, stava una specie di bacile. Voldemort si avvicinò e fece apparire un calice con la bacchetta, lo immerse nel bacile e lo riempì, poi lo porse a Kreacher e con un ghigno malvagio gli ordinò «bevi, fino all'ultimo sorso.»
L'elfo prese il calice con mani tremanti e guardò dentro: sembrava acqua, era trasparente e inodore come l'acqua.
Se lo portò alle labbra e bevve.
Il suo stomaco prese subito a bruciare e gemette di dolore, mentre Voldemort gli toglieva il calice di mano e lo riempiva di nuovo.
Fu costretto a bere molte volte, e a nulla servirono le suppliche, i pianti e i lamenti di dolore. Voldemort lo obbligò a bere ridendo della sua sofferenza.
Ad un certo punto, quando l'elfo era ormai in preda a dolori e allucinazioni, Voldemort mormorò «ci siamo. La pozione è finita.»
Tirò fuori dal mantello il medaglione e lo mise nel bacile, poi sussurrò altri incantesimi e lo riempì di nuovo con altra pozione.
Quando ebbe finito si voltò verso l'elfo accasciato a terra che piagnucolava «padron Regulus... padrone... vi prego, salvate il povero Kreacher... vi prego...»
«Sei stato molto utile, insulsa creatura. Ma il tuo momento è giunto. Il tuo padrone non verrà a salvarti perché tu sei solo un servitore, un essere inferiore, perfettamente sacrificabile ed è giusto che la tua fine avvenga così: servendo me, il mago più potente di tutti i tempi, e contribuendo alla mia impresa di diventare immortale» disse Voldemort guardandolo con disgusto.
«Padron Regulus... padrone... acqua, vi prego... acqua...» continuava a mormorare l'elfo.
Voldemort rise di nuovo e tornò alla barca, che iniziò a muoversi da sola mentre Kreacher strisciava verso l'acqua, assetato e con la gola in fiamme.
Appena toccò la superficie del lago per bere però, una mano bianca e viscida uscì dall'acqua e lo afferò.
Sentì Voldemort ridere di gusto prima di venire trascinato nel lago da tante altre mani bianche e fredde.

Il Legame Che Ci UnisceDove le storie prendono vita. Scoprilo ora