Capitolo 33 - I

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Gaeta gli indicò un auto, che si accese dall'interno prima che si sentissero nitidamente gli scatti d'apertura degli sportelli. Martin entrò, cercando di guardarsi intorno. Non era sicuro di riconoscere il luogo l'indomani, per tornare a recuperare la sua, parcheggiata chissà dove nei dintorni. Aveva una grande confusione in testa, ed anche se la musica ormai era cessata, ancora se la sentiva pulsare contro le tempie e dal di dentro. Benché decisamente non fosse astemio, gli sembrava di avere un poco esagerato con la birra. Era rimasto praticamente a digiuno, aveva solo bevuto, e mangiato forse una manciata di arachidi salate.
Gaeta si sedette al posto di guida solo dopo che Martin fu dentro ed ebbe chiuso lo sportello. Avviò il motore senza chiedere a Martin da che parte dovesse andare.
― Sto morendo di fame. Tu hai cenato?
Martin scosse la testa dal fondo della propria anima, rinunciando per l'ennesima volta a sottolineare con se stesso come Gaeta anticipasse ogni suo pensiero. Una volta sprofondato sul sedile, stava iniziando a sentire tutto l'alcol risalirgli nei pensieri, ma forse era solo sonno, o fame, non ne era sicuro, non era sicuro di niente.
Martin guardò Gaeta ed il modo che aveva di guidare, con il sedile un po' troppo tirato in avanti nonostante fosse un uomo molto alto. Questo gli faceva assumere una posizione quasi riversa sul volante, in una postura insolita. Mentre Martin rifletteva dettagli insignificanti della situazione tralasciando gli aspetti principali, mentre sentiva in bocca ancora il gusto forte della birra con l'assoluta certezza di non poter memorizzare nulla del luogo da cui si stavano allontanando, Gaeta si fermò accanto ad un chiosco di panini, un furgone molto lungo dove alcuni clienti stavano seguendo una partita di calcio ad una TV sospesa fra due alberi di pino. Scese per primo e fece cenno a Martin di seguirlo. Camminando alle sue spalle, a Martin parve che invece Gaeta non avesse quasi alcun problema a riprendere il controllo del proprio corpo, della propria voce, e del riso esagerato. Persino il colorito in volto sembrava essersi normalizzato, anche se però Martin si rendeva conto che qualcosa nella sua espressione gli fosse rimasta un po' sopra le righe, ma forse era solo perché non erano in ateneo, e perché in fondo non lo conosceva affatto, e magari quella nota sfuggente era parte della sua naturale personalità, della sua condizione normale, una volta lasciati a casa i panni dell'accademico, comunque non tanto sereno ed equilibrato. Non poteva saperlo. Comunque, l'insolito mutismo in cui sentiva di essere caduto non lo stava aiutando.
― Calmiamoci un attimo, prima di tornare a casa... è stata una serata... allegra.
Ed inesorabilmente Gaeta rise ancora, ma quella volta Martin rise con lui, o almeno ci provò.
― Che ci facevi in quel locale?
― Sono entrato in un locale a caso. Ero in giro... tutto qui.
Gaeta, prima che lui terminasse la brevissima spiegazione si era allontanato per andare ad ordinare dei panini, e due bottiglie di birra. Martin ne prese una e lo fissò come a chiedergli... 'ma non avevamo detto di calmarci?', ma Gaeta gli rispose senza esitazione.
― E sì, lo so, lo so, ma non si può mangiare un panino senza birra.
Con un gesto veloce del mazzo di chiavi Gaeta aprì la sua bottiglia e la scambiò con quella di Martin, che aprì subito dopo. Poi fece cin cin senza neanche attendere che Martin si muovesse di un millimetro, ed iniziò a bere velocemente. Praticamente non toccò il suo panino, solo qualche morso. Lo stesso fece Martin, nonostante la fame, e preferì vivamente sperare di tornare presto a casa, farsi una doccia e mangiare qualunque cosa che uscisse dal suo frigo, purché non contenesse alcol. Il pensiero del frigo gli richiamò alla mente Genio, e Ludovica, che chissà dov'erano a divertirsi.
Intanto, camminando si erano fermati e seduti entrambi sul bordo di un muretto basso, di confine ad una villetta con inferriate che partivano da una certa altezza, contro cui poggiarono la schiena. Martin sentiva il freddo del metallo fra le scapole, e gli sembrava una sensazione piacevolissima, da contrapporre alle vampate di calore alcolico che lo assalivano e gli invadevano la mente.
Gaeta diede ancora un altro morso al pane, poi gettò tutto l'involucro verso un cesto della spazzatura poco lontano, e fece centro. Continuò a bere la sua birra come se non avesse toccato acqua per tutto il giorno e quando finì, lanciò la bottiglia nella stessa maniera. Martin continuava a bere e bevve fino all'ultimo sorso. Finché non si sentì la testa nitidamente esplodere in mille fuochi d'artificio.
― Le posso chiedere...
Martin sussultò, tremando di un brivido che gli percosse ogni fibra. Era anche abbastanza sorpreso da come Gaeta passasse a dargli del lei giusto quando gli sembrava tornare più sobrio. Gaeta intanto si era curvato un poco in avanti, come per parlargli sottovoce.
― ...ma cosa ci fa a Lecce, Della Gherardesca?
Martin lo fissò, bloccando il respiro per un istante e cercando di schiarirsi la vista.
― Mi sono iscritto... a Lettere.
Gaeta non sembrava soddisfatto, ed anche se un po' sorrideva, aveva assunto un'aria come da investigatore.
― Ah, ok. Ho sentito dire che c'è un buon corpo docente.
Martin scosse le spalle d'avanti a lui, che lanciava intorno un sorriso divertito e luminoso.
― E Firenze... anzi, no... Lettere è a Pisa. E Pisa?
― Ho un nome pesante, per studiare a Pisa.
― Della Gherardesca... lei ha un nome pesante per studiare Letteratura Italiana d'ovunque.
― E questo che significa? Che i parenti di Einstein non possano studiare fisica?
Gaeta rise.
― Bé... se lo fanno... hanno il loro bel problema da gestire. Sarebbe da pazzi restarne sorpresi.
Non faceva una piega, Martin poteva solo incassare e cambiare discorso. Ma Gaeta non rallentava il ritmo con cui lo teneva sotto pressione.
― Per gente come lei, persino la morte è una finta morte, che merita di essere incastonata nell'opera più importante della storia della letteratura.
― Nella mia famiglia si nasce e si muore, come in tutte le altre.
― Mi permetta di non essere d'accordo, e comunque nella mia, quando si muore, si muore per sempre.
Silenzio. Gaeta si rabbuiò, aumentando la carica negativa che in quel momento Martin iniziò a percepire.
― Chissà, magari nel '200 i miei antenati coltivavano ceci nel tarantino.
― Perché? Ha fatto una ricerca in qualche archivio parrocchiale?
Martin si morse le labbra svegliandosi di colpo sotto la stretta del suo stesso morso, ma ormai era troppo tardi. Gaeta alzò di colpo lo sguardo su di lui, e notò come i suoi denti chiusi sul labbro inferiore stessero cercando di nascondere l'agitazione del momento, dell'arroganza d'aver chiamato villani gli antenati del professor Gaeta e Gaeta, ritrovando la luce divertita di poco prima, non ci pensò due volte ad alzare il tiro.
― E' in questi momenti che gente come lei non smette di ricordare a gente come me che i legumi siano la carne dei poveri.
I suoi occhi non erano offesi, ma tagliavano il viso di Martin come un coltello affilato avrebbe fatto su una fiorentina al sangue e Martin si colse per la prima volta in vita sua vergognosamente vigliacco. Ma Gaeta inaspettatamente sorrise.
― E comunque... non credo che esistano albi professionali sui raccoglitori di ceci.
Anche Martin gettò il panino nel secchio di ghisa, avrebbe voluto vomitare e non sentire più niente.
― ...mentre invece i conti, i vescovi ed i cannibali restano alla storia.
Gaeta aveva accavallato le caviglie infilandosi le mani in tasca e spingendo la schiena e la nuca contro l'inferriata alle loro spalle.
― Vede? La morte non ci coglie tutti allo stesso modo.
Approfittando dell'attimo di silenzio che si era aperto nel buio della notte di periferia, Martin prese il coraggio a due mani, puntando sull'aria fresca che gli stava colpendo il viso, facendolo tornare ogni tanto presente ed azzardato nel rivolgersi a Gaeta.
― ...se posso chiedere una cosa io...
― Prego.
Gaeta si voltò a guardarlo, e sembrava sereno e riposato come dopo una lunga notte di sonno.
― Perché nel Camelot... la chiamavano Artù.

Tre maggiore di dueDove le storie prendono vita. Scoprilo ora