Capitolo 49 - III

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Una volta in camera, con le ossa rotte, non si decideva ad iniziare a vestirsi, solo guardava la sua immagine riflessa allo specchio, nello specchio grande che sicuramente suo padre aveva detto a Fanny di disporre per lui. E si osservava, ancora leggermente abbronzato, con indosso i soliti boxer grigio scuro, aderenti sul suo corpo che ancora evaporava il calore dell'acqua calda.
Si sedette sul letto con fra le mani l'asciugamano con cui senza fretta stava strofinandosi i capelli. Come ogni volta dopo la doccia, i suoi occhi avevano un colore differente, più verdi ed intensi, ed era quello il momento in cui gli piaceva guardarsi allo specchio. Si sentiva quasi un'altra persona, forse più buona, e sicuramente più leggero, con meno problemi.
Ma in realtà, che problemi aveva? Voleva decidersi una buona volta a dare il giusto nome alle cose ed uscire dallo stallo accecante in cui era riuscito a conficcarsi con le sue stesse mani, certo, anche se un po' spinto da quelle di Gaeta?
Si lasciò cadere all'indietro ed allargò le braccia il più che poté. In quella posizione, quasi crocifisso contro la trapunta del letto, aveva difficoltà a respirare, i polmoni non si dilatavano bene, e quel senso di oppressione gli sollevò il pensiero da Gaeta. Si girò da un lato e spostò un cuscino per osservare di taglio il cellulare, oscuro e silenzioso, poggiato sulla scrivania. Il senso di malessere che stava provando si acuì all'improvviso quando si rese conto che non c'era nessuna possibilità che quel telefono squillasse per Gaeta, che la sua presenza lo raggiungesse, che in qualche modo potesse essere di nuovo toccato dalla sua voce dura ed insieme avvolgente, gentile a suo modo, e sicura di una sicurezza che forse fin dall'inizio non gli aveva lasciato scampo per sfuggirgli in nessun modo. Non c'era nessuna possibilità.
Tornò a sedersi velocemente al pensiero che subito seguì. L'ultima volta che aveva avuto modo di parlare con Gaeta, Gaeta gli aveva promesso che fra loro non sarebbe più successo nulla, che non sarebbe più stato infastidito da niente, che Martin poteva stare tranquillo finalmente fuori dai suoi quasi agguati, che poteva... tornare alle sue cose... aveva detto. Lo scontro nella stanzetta delle fotocopie era stato forse più duro di quello in auto. Con i giorni che continuavano a passare, nel pensarci e ripensarci, Martin sentiva che Gaeta lo aveva trattato come si tratta una troia qualunque, se lo era giocato sul palmo di una mano, e sicuramente si era divertito a stuzzicarlo fino a quando si era reso conto della pericolosità del gioco per se stesso, anche in considerazione del suo ruolo, e quindi aveva fatto l'unica cosa possibile, dimenticarsene, e magari imbonirlo chiedendogli anche scusa per evitare eventuali conseguenze. Era inutile girarci intorno, le cose erano andate così.
Finalmente, dopo giorni di impossibilità ad affrontare l'argomento, la sua mente stava rimettendo in ordine tutto quello che era successo fra di loro, andando oltre al ricordo della sua mano sul suo viso e fra le scapole, e del quell'unico bacio che gli aveva fatto scoppiare il cuore. Gaeta lo aveva provocato ogni volta, senza che Martin ne avesse né capito il motivo, né francamente niente altro. Martin aveva solo incassato il colpo ogni volta e solo aveva cercato di difendersi, e la sua strategia era stata quella di non opporgli resistenza. Ammettere questa versione dei fatti lo uccideva di un dolore incontenibile.
Tutto quello che era successo in seguito e di conseguenza, era accaduto solo nella mente di Martin, Gaeta nella realtà dei fatti lo aveva solo molestato. Era quella la parola giusta e finalmente pronunciarla senza paura. E doveva prenderne atto, e magari decidere se fare qualcosa in merito, oppure no.
Che poi il suo comportamento avesse causato dentro Martin un terremoto dalle proporzioni continentali, era tutt'altro argomento da sviscerare. Ma in realtà Martin sapeva non trattarsi di un argomento separato, perché i fatti si univano tra loro proprio nel punto in cui Gaeta si era reso conto della reazione di Martin, e proprio quella probabilmente lo aveva invogliato ad esagerare, seguendo la sua indole dissacratoria e sopra le righe, e forse incapace di darsi un limite.
Su questo Martin ormai non poteva farci nulla: una cosa era capire come Gaeta avesse giocato con il suo corpo, e la sua anima, un'altra era accettare le sensazioni che ne aveva provocato. Era come giocare con un mostro vincente fin dall'inizio, ed a carte scoperte, ma solo le proprie. Che possibilità aveva di sperare quanto meno di chiudere la partita a pari punti? Continuando a sbattere contro il muro della propria inferiorità emotiva, Martin avrebbe dovuto prepararsi solamente alla sconfitta, allo sbriciolamento di ogni sua dignità, all'affondamento di tutte le flotte di buone intenzioni che Martin stava schierando in campo, e che già da subito gli stavano dimostrando di fare acqua da tutte le parti, perché nonostante la rabbia ed il dolore per essere stato così oltraggiato, Martin continuava a pensare a Gaeta totalmente, ciecamente, e senza interruzione.
Sapere che mai sarebbe stato in grado di chiarire con lui nessuno dei suoi dolorosi dilemmi, poiché la sua paura aveva fornito a Gaeta la possibilità di scomparire nel nulla, lo stava uccidendo con una beffa a cui non trovava soluzione. Con le sue stesse mani Martin aveva concesso a Gaeta il silenzio dell'uscita di scena, senza nessuna spiegazione per quanto fosse accaduto. Gaeta infatti stava mantenendo la promessa, comodissima, tornando a trattare Martin come tutti gli altri studenti, nell'anonimato di una schiera di individui seduti innanzi a sé durante le lezioni.
Ma quello che davvero stava spiazzando Martin era che incredibilmente fosse Martin a non mantenere fede alla sua parte di promessa, quella che aveva fatto con se stesso, di chiudere Gaeta come un rumore di fondo della sua mentre e di non ascoltarlo più.
A quei pensieri, aveva ricominciato nuovamente a sudare, e sentì il bisogno di tornare ancora sotto l'acqua come se l'acqua gli potesse sciacquare via di dosso ogni suo desiderio ancora un'altra volta. Per un tempo indefinibile rimase immobile ad occhi chiusi e con le mani piantate contro le piastrelle, finché con un impeto partito dal nulla non decise di saltare fuori dalla doccia, di vestirsi velocemente ed andare a sbollire le energie nere che lo stavano avvelenando correndo a perdita di fiato in giro per la città di notte.
Si vestì senza neanche tanto guardare cosa si stesse infilando quasi alla rinfusa, e davanti allo specchio che conteneva per intero la sua immagine, si osservò indossare degli shorts da ginnastica che non gli coprivano le ginocchia ed una larga felpa chiusa fin sotto al mento con una grossa zip color arancio.
Con una manata veloce afferrò il cellulare e le chiavi di casa, e si lanciò sulla rampa delle scale sbattendosi la porta alle spalle. Il colpo fece tremare la lamiera dello sportello dell'ascensore. Arrivato al piano terra, con un colpo dell'avambraccio spalancò il portone a vetri ed irruppe in strada come se stesse facendo un invasione di campo. Tutta Lecce lo stava aspettando fuori, e Martin doveva solo scegliere se accettarne la sfida.
Fermo ad un passo dal portone, assaporò come l'aria fosse fresca e tranquilla, silenziosa al punto da fargli ascoltare in lontananza le chiacchiere dei clienti della pizzeria che intravedeva entrare ed uscire poco distante. Respirò profondamente, si sentiva alterato e confuso, ancora accaldato dalla doccia e con i capelli totalmente bagnati. Un brivido di freddo partendogli dal collo gli percorse la colonna vertebrale per intero.
Davanti ai sui occhi Martin aveva la parete piatta e vuota del palazzo di fronte, dove graffiti scoloriti non si lasciavano leggere. La strada che gli scorreva davanti gli prospettava due direzioni possibili. Alla sua destra l'asfalto lo avrebbe portato sempre più in periferia, verso file di ville e villette, lo stadio e poi l'aperta campagna fino al mare. Alla sua sinistra invece si sarebbe spinto sempre più verso il cento, verso casa di Ludovica, e poi la zona antica della città con i suoi monumenti esposti alle luci in diagonale, e dopo ancora la facoltà e tutto il resto del mondo che in quel momento contava.
La scelta fu facile. Martin ebbe solo il tempo di sollevare da sul petto la collana, tirarsela sulle labbra e sentirsi contro i denti battere il ciondolo d'oro con il cuore di rubino. Legò bene i lacci alle scarpe da ginnastica, una per volta, infilò gli auricolari nelle orecchie, alzò il colletto della felpa chiudendosela bene fin sotto al mento, respirò profondamente con tutta la forza che riuscì ad impiegare e si lanciò in una corsa veloce verso il centro, verso le luci che lo stavano aspettando in fondo al tragitto, verso il fiato che perdeva ad ogni passo mentre saltava le fioriere di cemento, verso l'ansia che lo stava spingendo in avanti, e che gli diceva di non fermarsi.

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