Sette furono i dolori più grandi che ebbi in vita mia.
Io e Bred li chiamiamo le mie "piccole tragedie".Quando nacque Rufus, non potei non affermare che si chiamasse Tiger; Freddie, tra l'altro, fu entusiasta di aver contribuito al suo secondo nome, perciò diciamo che eravamo tutti contenti.
Intanto, da fine marzo in poi, andò sempre peggio per lei.
Ricordo benissimo che scattava in piedi dopo aver buttato giù un paio di righe di Mother Love o di Too Much Love Will Kill You e pretendeva di registrarle per non sprecare neanche un attimo di momentanea energia.
Ogni volta che sedeva su quella sedia dopo aver scritto, però, aspirava due o tre bicchieri di vodka senza neanche dare il tempo alle labbra di sfiorare il contorno di vetro prima di rimetterlo sul tavolo.
Il 27 maggio 1991, il tonfo ovattato dell'ultimo superalcolico della giornata riecheggiò nelle nostre orecchie come un avviso imminente ed irrimandabile.
Friederike si alzò lentamente dalla sedia. Le tremavano le gambe.
«Per oggi basta così» sussurrò osservandoci.
«Vuoi qualcos'altro?» le chiese Jeff. «Acqua, magari?»
La ragazza sorrise divertita, prima di notare i nostri sguardi preoccupati e scrollare elegantemente le spalle. «Continuerò domani».
Inutile dire che non tornò mai più in quella casa dove i miliardi di ricordi la circondavano soffocandola per l'ultima volta.Vedere una delle persone a cui vuoi più bene in quello stato fa male. Lo dico per esperienza.
Quando la porta si chiuse, noi tre ci osservammo per un po', prima di decretare l'ovvio: senza Freddie non saremmo andati avanti.
Bred ripete continuamente quanto quella ragazza minuta e dai capelli nerissimi fosse un vero e proprio metronomo.
Con le palle, aggiungerei.Quando la vidi per la prima volta ed iniziò a lavorare con noi, non era perfetta.
Non riusciva a stare ferma, saltellava ovunque come un coniglio spaventato, era sempre al culmine dell'eccitazione, il suo cervello era in movimento come un treno che non sa dove andare, corre senza una meta. E la sua voce era ovunque.
Era un'esplosione di elettricità incontrollata, impetuosa.
Fu lei stessa a sentire il dovere di perfezionarsi.
Era un metronomo, sì, ma decisamente con le palle.Quando il giorno dopo non si presentò, eravamo tutti nel pieno dell'agitazione, non era da Friederike non avvisare la propria assenza, pensava sempre che fosse una priorità anche per gli altri.
Che l'avessimo voluto o no, in quel momento lo era eccome.Jeff osservava la finestra con la stessa attenzione di quella di un cane che aspetta con ansia l'arrivo del padrone, Bred controllava nervosamente l'orologio ed io con le cuffie nelle orecchie cercavo di distrarmi suonando la batteria.
Ma niente, di Freddie nessuna traccia.E siamo a due.
Mentre la preoccupazione prendeva il controllo sulla situazione, vidi il bassista alzarsi.
Mi sfilai le cuffie. «Cosa pensi di fare, Jeff?»
«Vado a casa sua, vedo cos'è successo» spiegò.
«Stiamo calmi, se fosse successo qualcosa, Jimmie ci avrebbe senz'altro avvertito, no?» ragionò Bred.
«Potrebbe essersi distratta» replicò il castano.
«O potrebbe non aver avuto tempo» aggiunsi.
«O...»
«Ho afferrato il concetto!» tagliò corto spazientito il mio migliore amico.
Il telefono prese a squillare e quel fastidiosissimo ed insopportabile rumore convinse Jeff a rispondere.
«Jimmie!» esclamò sorpreso. «Come sta Freddie?»
Mi rimisi istintivamente le cuffie e le permetti il più forte possibile contro le mie orecchie.
«È... ti raggiungiamo immediatamente» mormorò attaccando.Ragazzi, gli occhi di Jeff sono sempre stati di una sfumatura smeraldo particolarmente eccezionale, ma mai in quel momento le sue iridi erano un vero e proprio specchio verde bottiglia.
E fu così che andammo di corsa in ospedale perché "Se fosse successo qualcosa, Jimmie ci avrebbe senz'altro avvertito".
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Mi chiamavano "Regina"
Teen FictionAvere un obiettivo è la più grande dichiarazione di guerra che fai a te stesso. Sai di dover lottare. Sai di dover resistere. Sai di dover annientare pregiudizi e vecchie tradizioni. Non mi aveva mai detto nessuno che mi sarebbe costato il mio s...