1 Legend

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Il 24 novembre del 1991 alle sette meno dodici minuti di pomeriggio, la corvina sospirò.
L'aria si fece pesante e, nonostante non riuscisse a parlare, Friederike volle rendersi utile un'ultima volta.
«Jim...» la chiamò flebile.
La ragazza le si avvicinò.
«Se morissi ora...» iniziò, ma l'altra fece per parlare e lei la zittì con un elegante movimento della mano. «Immagina che io morissi ora... e che... che dovessi andare in bagno e la mia ultima parola fosse» sorrise divertita, «pee».
Jimmie rise osservando Freddie Mercury coprire quel meraviglioso sguardo azzurro elettrico per un'ultima volta.
Il torace si abbassava e si alzava senza forze, prima di spegnersi con un sospiro leggero come una vecchia macchina a vapore.
«Freddie...» sussurrò lei. «Freddie, stai bene?»
Le iridi nocciola si colmarono di lacrime e il capo si fiondò con le braccia allacciate al collo della corvina.

Si dice che le stelle più belle non si spengano mai, eppure la più grande leggenda della storia è morta per amore.

La chiamavano "Regina" perché nessun altro nome avrebbe potuto anche solo sfiorare l'idea di ciò che era la mia migliore amica.

E io?
Dov'ero io in tutto ciò?

Se qualcuno avesse spostato di poco lo sguardo, in quel terrazzino in fiore, si sarebbe potuto vedere Bred parlare a telefono.
Piangeva, ma nessuno l'avrebbe mai detto.
Lui era lì e proferì la frase che scaturì nella mia vita esplosioni incontrollate di rancore, tristezza e pazzia.
«Non venire, è inutile... Se n'è andata».

Il 10 novembre, Freddie abbandonò completamente i medicinali che riuscivano a mantenerla in vita e ci rivelò che non voleva più nascondere segreti con l'intero mondo della musica che l'aveva sostenuta.
Era solamente la sua paura ad impedire di decretare ciò che doveva essere chiarito.
La discussione che avemmo la sera del 23 accoccolati attorno al letto come candele di un rito satanico scaturì... beh, tutto.
«Lo so,» ammise, «dovrei rendere pubblica la notizia».
«No,» replicò Jimmie, «non devi».
«Ha ragione» concordai. «Lascia stare, Fred'».
«Freddie, se non vuoi, puoi anche...»
«La fate finire di parlare?!» esclamò Jeff spazientito.
Sembrava sempre teso e sul punto di scoppiare a piangere in quei giorni... o... beh... di scoppiare in tutti i sensi... di conseguenza, non si poteva dire che contraddirlo fosse in cima alla lista dei desideri di qualcuno di noi.
Friederike lo osservò con un mezzo sorriso per qualche istante, poi scrollò le spalle.
«Non so quando placare le anime in pena di questi qui, sinceramente» chiarì lei gettando frettolosamente lo sguardo oltre la finestra. «Per me potrebbero anche morire fuori casa mia, non cambierebbe il fatto che sono odiosi... È che non penso che avere l'AIDS sia qualcosa da nascondere e di cui vergognarsi e non voglio fare in modo di farlo intendere agli altri perché sarebbe una vera e propria menzogna, ma voglio comunque che i fatti miei restino... beh, fatti miei».
Il telefono prese a squillare e tutti noi ci voltammo verso il punto della stanza dal quale proveniva il rumore come cani da caccia con le orecchie drizzate e l'espressione attenta, finché Jimmie non si decise ad alzarsi e a rispondere.
«Robbie?» domandò. «Certo, è qui. Ora te la passo».
E così fui costretta ad avvicinarmi.
«Sì?» chiesi annoiata. «Clare?! Calmati, non capisco niente! Cosa diamine è successo?»

Se c'è una cosa che ho imparato nella vita che ho percorso e che chissà quando concluderò è che non sei mai l'espressione di te che preferiresti essere.
Ogni volta, in modi diversi, gli altri si ripercuotono su di noi e, alla fine, veniamo piegati finché non verrà fuori la versione del nostro carattere che soddisferà le priorità della maggioranza.
Ma la maggioranza non è ciò di cui ti importa, la maggior parte delle volte ti penti della malleabilità che hai avuto e che tuttora hai.
E, prima o poi, le cose necessarie, le persone più importanti... vengono sottovalutate.
Insomma, non siamo mai chi vorremmo essere.
Di questo ce ne pentiamo tutti almeno una volta.
Eppure, più ci si capisce, più nessuno ci ascolta.
Ti ritrovi in un turbine di solitudine che diventerà all'infuori della tua portata, fino a sprofondare nell'abisso della più disorientante sensazione di puro terrore verso te stesso.
Siamo pezzi d'argilla e ci modelliamo a vicenda. Personalmente, penso che la gente con cui siamo più a nostro agio sia quella che ci permette di essere sempre più noi, cosa che troverà fine non appena questa bolla di pace andrà a spezzarsi in una qualsiasi interruzione.
Perché, dagli inizi della nostra vita, c'è sempre qualcuno che preferirebbe averci come ciò che non è stato lui.
Sono i genitori, un fratello maggiore, magari un insegnante, potremmo essere noi stessi.
È il senso di protezione che abbiamo nei confronti di qualcuno, è il nostro amore a rendere malleabile la persona che lo riceve perché acconsentirà ad accettare consigli secondo la nostra falsa esperienza.
Perché, per quanto un'esperienza possa definirsi tale, impedendo ad un qualsiasi terzo di compierla, incominceremo a scalfire qualcosa.
Senza le nostre parole, forse, sarebbe stato qualcun altro.

«Arrivo subito, Clare, non preoccuparti» decretai.

Ecco, ragazzi.
Quello fu il mio errore.
E, credetemi, me ne sarei pentita amaramente.

Attaccai la telefonata è mi voltai verso gli altri.
«Io... Fred', non...» borbottai.
Lei inarcò un sopracciglio: i cinque minuti di forza che le rimanevano svanivano sempre nei momenti sbagliati.
«Prometti di aspettarmi» ordinai. «Ti prego. Giuralo».
I suoi occhi azzurro elettrico cristallizzavano la mia espressione.
Non sapevo neanche io cosa volesse significare la mia preoccupazione, eppure, stranamente, avevo la sensazione che, in mia assenza, sarebbe accaduto qualcosa.
Qualcosa per cui avrei voluto esserci.

A pensarci bene, non avevo tutti i torti.

Friederike continuò ad osservarmi serena, ogni respiro a costarle fatica e un leggero sorriso a segnarle le labbra.
Sperai che mantenesse davvero fede al patto, ma sapete anche voi com'è andata a finere.

Così, alle sei e quarantotto di pomeriggio del 24 novembre 1991, posai con mani tremanti il telefono nella cambina, uscii e mi sedetti in macchina.
Mi sforzai di piangere, ma neanche le lacrime vollero ubbidirmi quel giorno.
Non piansi.
Neanche un attimo.
Anche voi avreste fatto lo stesso; chi perde una persona davvero importante non piange.
Ci si rende semplicemente conto di avere un vuoto dentro.
Capii col tempo che quella sensazione non avrei potuto cancellarla in nessun modo. Non potevo colmare la presenza di Friederike, non ora che se n'era andata per sempre.
Certo, potevo farci l'abitudine.
Eppure, anche se ogni giorno accetto un po' di più che sia fuggita in punta di piedi senza avvertire nessuno... senza avvertire me, non ho mai smesso di sentirmi incapace di continuare a sopravvivere.
Lei non era la mia migliore amica. In ogni caso, non la mia.
Lei non era la persona che più ha inciso sul mio modo di pensare o sul mio carattere.
No.
Lei era semplicemente la prova che nessuno sta andando in rovina finché gli altri non se ne accorgono.
Lei era soltanto la certezza che, qualunque cosa fosse successa, non ci sarà anima viva che sentirà le grida d'aiuto di nessuno.
Eppure, al tempo stesso, lei sapeva che ad ogni regola c'era un'eccezione, una ed una sola anima ribelle per ogni piccola stretta che la vita aggiunge alle difficoltà.
Ho visto con i miei occhi quanto una persona potesse cambiare e tornare felice grazie ad un buon amico.
È vero, non ho più sentito Jeff da una giornata nuvolosa di fine novembre.
Sono pronta a scommettere, però, che, anche se con il cuore a pezzi e la mancanza d'ossigeno in un mondo pronto ad affogarlo, sta meglio di quel diciassettenne sveglio che cercava il padre ed ha trovato un'amica.
Un paio di auto mi sfrecciarono accanto; in mezzo alla polvere che rimaneva impastata sulle ruote, portarono via anche le mie pazze speranze, i miei folli sogni e, col senno di poi, ciò che rimaneva della mia amica.

Fu in quel momento che mi accorsi di un minuscolo quanto sostanziale dettaglio.

C'era troppo silenzio.

Mi chiamavano "Regina"Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora