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Rivas Evian, le braccia incrociate e lo sguardo rivolto alla finestra dell'albergo, studiava silenziosamente l'andirivieni continuo di gente dai vari locali della città fare ritorno verso le loro abitazioni.
La scena lo disgustò.
Vedere come il Natale fosse diventato un'occasione per organizzare feste ed ubriacarsi insieme agli amici, lo faceva vergognare.
Negli anni, la tradizione natalizia era diventata il comprare regali e nasconderli sotto un albero addobbato in casa, spacciandolo per l'opera di un anziano omone magico del Polo Nord.
Quello era il periodo dell'anno più amato dai bambini di tutto il mondo, e la ragione della loro trepidazione lo aveva sempre infastidito. Nessuno di loro aspettava che Gesù bambino nascesse, nessuno di loro ne festeggiava il compleanno, e la colpa era tutta dei genitori.
Perdonare era alla base del suo credo, e non se la sentiva per niente di giudicare gli altro ed elevarsi come superiore. Anche il giudizio non spettava a lui.
Che ne posso io delle loro vite? Pensò, scuotendo il capo.
A volte si sentiva male al posto loro, ma poi si ricordava che era inutile.
La vita è breve per riempirla di dolori.
«A volte, però» sussurrò, «sono inevitabili.»
Era in giornate come quelle che finiva sempre col meditare sul suo passato. Ogni volta che trovava un momento per rivolgersi al Signore, inevitabilmente sentiva sempre delle forti emozioni dentro di sé.
Che fosse una sensazione divina, una reazione comune o una specie di effetto placebo, si sentiva sempre meglio. Che Dio non fosse nei cieli ma dentro di lui?
Se l'era posta spesso quella domanda, ma non era mai riuscito a darsi una risposta.
Si dice che il migliore modo per incontrare il Signore è aprirgli il proprio cuore ma, negli ultimi tempi, si era chiesto se lui non si celasse nel cuore delle persone e non aspettasse di sbocciare come un fiore.
«Una domanda complicata» gli aveva risposto una volta un prete che aveva consultato, «e molto profonda, amico mio. Ma credo che sia solo tu che puoi scoprirlo.»
Sfortunatamente, il solo modo che conosceva per aprire il cuore, era commettere buone azioni, e il suo lavoro rappresentava un problema. Uccideva per vivere.
Pur sapendo che si trattava di animali, togliere la vita inizialmente lo aveva percepito come ammazzare delle persone. L'unica fortuna era che, con animali che rappresentavano un pericolo solo se liberi all'interno di una proprietà privata, poteva risparmiare loro quell'atto barbaro.
Le cose erano cambiate solo quando aveva cominciato a capire esattamente quella sensazione particolare che percepiva ogni volta che premeva il grilletto. Adrenalina, euforia.
Benché l'idea gli fosse sempre sembrata disumana, non si era mai reso conto che ogni volta che un animale moriva per causa sua, sentiva come un peso sparire dal suo petto, e una sensazione di libertà e di piacere. Non era mai riuscito a descriverlo.
Allora le sue convinzioni erano crollate come un castello di carte.
Gli piaceva uccidere.
Amava uccidere.
Da allora la sua vita era cambiata profondamente. Non andava più alle funzioni, se ne vergognava, e non riusciva più ad avvertire Dio nelle sue preghiere.
«Anche tu hai ucciso, in fondo» aveva detto una volta, per sfidarlo, «Il diluvio universale, le piaghe d'Egitto... e io lo faccio per fare del bene alle altre persone. In confronto, non faccio nulla di peggio!»
Ma si era reso conto che la cosa non funzionava.
Se fosse esistito un Dio dentro di lui, allora era già appassito. Ed era allora, nel periodo più buio della sua vita, che aveva scoperto uno dei modi più macabri per ricongiungersi al Signore.
Dal greco 'autos', di sé stesso e dal latino 'flagellare', colpire com violenza, l'autoflagellazione era una delle pratiche più spaventose che conoscesse.
Consiste nel percuotersi violentemente con uno strumento di tortura detto flagello, che provoca gravi ferite allo scopo di avvicinarsi maggiormente a Gesù, attraverso le sue sofferenze terrene vivendole di persona.
Quando ne era venuto a conoscenza, aveva avvertito un nodo allo stomaco che lo aveva fatto vomitare. Era sì disperato, ma non si sarebbe mai spinto a tanto.
Erano passati un paio d'anni da allora e, col tempo, aveva cominciato a sentire che mancava qualcosa dentro di lui, qualcosa di astratto, qualcosa di indefinibile.
Allora aveva ricominciato a pregare, e si era sentito come rinato.
Dio mi ha perdonato. Aveva pensato.
Non partecipava comunque alle funzioni, ma non lo reputava importante. Preferiva dialogare con il cielo da solo, e non per mezzo della collettività.
Il telefono fisso della camera squillò, riportandolo alla realtà dai suoi pensieri.
Alzò la cornetta e attese il suo interlocutore.
«Sono Foster» gli rispose una voce stanca.
«Sono felice che mi abbia richiamato» gli disse lui, «è riuscito ad organizzare la sua piccola spedizione?»
«Sì. E mi perdoni se glielo riferisco questa sera, ma ora ho tutte le conferme. Capirà che non è stato facile come con lei.»
«Certo, certo. Lo immagino.»
«Bene. La mattina del ventotto dicembre, alla cava, le può andar bene?»
«Ottimo» gli rispose lui, annuendo.
«Sono davvero felice di aver incontrato proprio lei, signor Rivas.»
«Si figuri, faccio semplicemente il mio lavoro.»
«Allora buon Natale.»
«Anche a lei.»
Mise giù la cornetta.
Oh, signor Foster. Si disse, ghignando. Non immagina quanto io sia felice.

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