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Dalla finestra del suo appartamento, Amy osservava la strada tre piani sotto di lei.
La lunga striscia nera era rischiarata ad intervalli regolari dalle due file di lampioni sui marciapiedi. Il silenzio le pareva surreale.
Da quando si era trasferita a New York tre anni prima, aveva sempre visto l'ottantottesima strada un ingombro di veicoli, anche se aveva sempre sostenuto che per lei non fosse un problema.
Non era mai stato il traffico a disturbarla, in quanto quell'appartamento si trovava in una posizione ideale.
Cento metri alla sua destra, sorgeva il gigantesco museo di arte moderna e contemporanea Solomon R. Guggenheim, con la sua imponente struttura futuristica.
Costruito nel 1943 dall'architetto statunitense Frank Lloyd Wright, l'edificio somiglia ad un gigantesco nastro bianco che si avvolge su sé stesso per formare, sulla sommità, una spirale rovesciata, con la base più ampia in cima.
In netto contrasto con gli edifici che lo circondavano, il Guggenheim è uno dei musei più importanti al mondo e anche considerato, dagli amanti dell'arte, uno dei simboli più caratteristici della città.
Amy lo aveva potuto visitare solo in un'occasione. Nel primo periodo del suo trasferimento, durante il quale visitò i luoghi simbolo della città, era rimasta quasi un giorno intero all'interno a cercare di comprendere le opere. Sempre stata amante dell'arte in ogni sua forma, la visita al museo la aveva colpita più di quanto si fosse aspettata.
«L'arte moderna sa sempre sorprenderti» aveva detto una volta a Tom, «per molti sono solo schizzi senza un motivo, ma per me rappresentano ogni battito del cuore quando spaventato, turbato o emozionato. Sono emozioni dell'artista, ma in un qualche modo le vivi anche tu.»
Il trasferimento a New York aveva rappresentato il passo più importante della sua vita.
Non più dipendente dai genitori, era andata a vivere da sola in un piccolo bilocale sull'ottantottesima strada.
Aveva sempre amato il suo piccolo appartamento, non tanto per l'arredamento o la grandezza, quanto per la vista sul museo e su Central Park, appena dopo la quinta strada.
Mentre finiva di bere la tazza di caffè, vide un'auto scura svoltare e dirigersi verso di lei, fermandosi appena di fronte alla porta del palazzo. Era Tom.
Pulì rapidamente la tazza, si infilò gli stivali Ugg, la giacca e prese il trolley bordeaux per poi uscire di casa. Mentre chiudeva a chiave la porta, si sentì tornare bambina, quando i suoi genitori la portavano in vacanza in Florida.
Avvertì una forte emozione all'idea di quel viaggio, una sensazione di impazienza che aveva immaginato di poter vivere solo da bambina.
Si girò e fece per prendere le scale, voltandosi poi verso l'ascensore alle sue spalle.
Resasi conto che alle quattro e un quarto del mattino gli inquilini stavano ancora dormendo, si fece coraggio e lo chiamò. Le due pesanti ante di metallo si aprirono dopo un paio di secondi.
La cabina non era più grande del suo bagno ma, da sola, le pareva molto più ampio. Si infilò dentro e digitò lo zero. Attese che le porte si chiudessero e sentì il pavimento vibrarle sotto i piedi, mentre avvertiva la discesa lenta della cabina.
Era la seconda volta in un mese che la adoperava.
Che cosa mi sta succedendo? Si domandò, stupita di sé stessa.
Solo cinque anni prima aveva cominciato a rendersi conto del suo malessere a rimanere in spazi chiusi affollati. Sapeva che non era un semplice disagio, ma quasi una forma di terrore.
La diagnosi non aveva tardato ad arrivare. Demofobia.
Non appena lo aveva scoperto, Amy aveva sentito una strana sensazione, di smarrimento e di isolazione.
Conscia del fatto che quella patologia poteva essere un ostacolo per la sua vita professionale, aveva sempre cercato di contenerla.
Non sempre aveva funzionato, e a volte capitava che le venissero incubi durante le pause lavorative o nel cuore della notte.
«Basta» sussurrò decisa, appena sentì la cabina fermarsi, «non ho nessuna intenzione di rovinarmi quest'esperienza con inutili problemi.»
Domani a quest'ora sarò in Argentina. Pensò, non riuscendo più a contenere l'entusiasmo. Molto probabilmente non le sarebbe mai capitata un'altra opportunità come quella.
Le ante metalliche si aprirono, ed Amy uscì a passo svelto dall'ascensore, attraversando il piccolo atrio. Si avvicinò alla portineria e si schiarì la voce.
Il nuovo impiegato per il turno di notte, Mark Sanders, scattò a sedere, ancora mezzo addormentato. Guardò con serietà la dottoressa, tentando di nascondere la stanchezza.
Amy per poco non rise. Sanders doveva avere sui ventidue anni. Non lo aveva mai incontrato prima, l'unica informazione con la quale era riuscita a risalire al nome era la targhetta sul petto.
«Sono venuta a consegnarle la chiave del mio appartamento» gli disse, passandogliela.
Lui la prese e la infilò nel gancio al muro, tornando a rivolgersi a lei.
«Parte per le vacanze?» le chiese.
Più o meno. «Sì, Argentina.»
Mark cercò di riprodurre uno sguardo interessato, ma le palpebre cadenti rovinarono la scena.
«Buon viaggio, signorina.»
Amy lo ringraziò e uscì dalle porte in vetro, all'aria fresca di prima mattina.
Tom le venne incontro e le prese il trolley, rivolgendole un sorriso stanco.
«Allora, pronta?» le chiese, mentre lo infilava nel portabagagli.
Lei lo fissò scettica.
«Cosa dovrei risponderti, Tom? Sono pronta a partire, questo sì, ma non a quello che mi aspetta. Potremmo confermare un'ipotesi verosimile o fare la scoperta del secolo... forse no, non sono molto pronta.»
Lui rise, mentre le apriva la portiera e la invitava ad entrare. «Forse hai ragione tu.»
Lei si sedette, chiudendosi dentro. Si sfilò la giacca che lasciò sui sedili posteriori, mentre si legava i capelli in una coda di cavallo.
Harris chiuse il portabagagli e la raggiunse, sistemandosi al posto di guida. Mise in moto l'auto, e accelerò per uscire dall'ottantottesima, immettendosi in una deserta quinta strada.
«Niente traffico sulla Fifht Avenue?» chiese lei, colpita.
«È presto, ma non ti illudere. All'aeroporto non saremo così fortunati.»
«Era inevitabile» gli rispose, cercando di sdrammatizzare. «E tu, invece?»
«Cosa?»
«Sei pronto per questo viaggio?» gli domandò. Tom le scambiò uno sguardo d'intesa.
«Speravo non me la rivolgessi questa domanda, a dire la verità» ammise, schiarendosi la voce.
«Non è così facile rispondere, vero?»
«Non è proprio questo» rispose, «Sono d'accordo con te, in verità. Il viaggio non è per niente un problema, ma forse lo diventerà se non saremo pronti a quello che troveremo. E se fosse davvero un dinosauro? Cosa troveremmo? Che cosa potremmo dedurne?»
Amy ci rifletté alcuni secondi. Anche lei aveva provato a porsi quelle domande, ma non era mai riuscita a rispondersi. La verità era che mancava la certezza.
Se l'animale fosse stato davvero un crotalo, avrebbero sì dato un piccolo contributo, ma sarebbe stato un spreco di tempo e denaro farli arrivare da New York.
Scoprire e catalogare una nuova specie di animale era sicuramente uno dei sogni di ogni biologo, lei compresa ma, tra le due opzioni, sperava con tutta sé stessa che la spedizione non si concludesse in quel modo.
«A cosa pensi?» la interruppe Tom.
«Solo a quello che hai appena detto tu. Spero che la risposta di tutto non sia Crotalus durissus
Lui sospirò, guardandola con aria grave.
«Io non te lo ho mai detto, ma penso proprio possa finire più o meno così.»
«Lo so, oppure comunque con una specie simile» gli disse, un po' demoralizzata, «ma c'è da dire che le prove ci spingono in un'altra direzione.»
Tom rifletté prima di rispondere. «Be' sì, questo è vero, e forse quelle prove dicono la verità.»
«Lo spero.»
«Lo spero anch'io.»

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