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Erano trascorsi quasi venti minuti da quando avevano lasciato il centro di Manhattan, ma Amy riuscì ad individuare la loro destinazione solo quando l'auto superò l'ultimo tratto della Van Wyck Expy S, dopo il quartiere di Jamaica, nel Queens.
Sapeva dove erano diretti, ma la vista del complesso la colpì ugualmente.
Il John Fitzgerald Kennedy International Airport è l'aeroporto più importante degli Stati Uniti e di tutto l'Emisfero Boreale. È il principale accesso di merci e persone nel continente americano, con i suoi otto terminal e quasi quattordici chilometri di piste.
La forma ricorda vagamente quella di un pesce palla. I terminal sono disposti in modo da sembrarne le spine, allungandosi verso l'esterno rispetto ad una gigantesca rete di strade e parcheggi che forma un'ellisse nel centro.
Un gigantesco nido di uccelli. Pensò, mentre l'auto superava la sbarra all'entrata del parcheggio per il terminal 1. Le interminabili file di posti erano occupate da numerosissime auto, ognuna accanto all'altra come pedine di un domino.
Quando Tom trovò un parcheggio libero, erano già le quattro e quaranta. Avevano solo un'ora e venti per prepararsi prima del decollo.
«Ci siamo?» gli domandò, inspirando a fondo. Stava ancora tremando, per niente stanca.
«Eccoci qua» le rispose, spegnendo l'auto e allungandosi verso i sedili posteriori.
Consegnò il cappotto ad Amy e si infilò la giacca, facendole cenno di seguirlo fuori, mentre prendeva i bagagli.
Il fresco pungente le pizzicò la punta del naso, mentre osservava la volta stellata sopra di lei. Il cielo terso era di un blu che non aveva mai visto prima.
«Per me puoi rimanere così anche tutto il giorno, però sappi che quando ti stufi sarò dentro a riscaldarmi» commentò Tom, ridendo, «o in volo, se fai tardi.»
«Vedo che il sarcasmo non le manca, professore» gli disse, girandosi a fissarlo, «ma non le farò perdere altro tempo.»
Lo superò a testa alta, cercando di non cedere all'istinto di ridere. Lui si affrettò a raggiungerla.
«Non potevi parcheggiare più vicino?» gli disse poi, strofinandosi le braccia per riscaldarsi. Non che le dispiacesse l'inverno, ma non era mai stata un'amante delle basse temperature.
«Penso che molti abbiano avuto la tua stessa idea, e le possibilità di trovare posto per parcheggiarla laggiù sono davvero scarse.»
Lei annuì, pienamente d'accordo, mentre gli sfilava il trolley dalle mani e lo trascinava verso l'imponente struttura che si ergeva a cinquanta metri da loro.
Il JFK, così come la vista della Statua della Libertà per i grandi transatlantici di inizio novecento, piò essere considerato l'entrata principale alla metropoli. Situato a quasi venti chilometri in direzione sudest rispetto alla città, oltre a rappresentare un simbolo nazionale, è anche un punto di riferimento per chiunque volesse entrare negli Stati Uniti.
Costruito con il nome di Idlewild Airport, fu ribattezzato New York International Airport nel 1948 ma, a seguito dell'omicidio di Kennedy nel 1963, il nome fu cambiato nuovamente in onore del presidente.
Mentre Amy entrava nella hall del terminal 1, capì subito il motivo della sua importanza. L'enorme stanza era gremita di passeggeri, alcuni intrappolati in lunghe code e altri che attraversavano la sala quasi correndo, nella speranza di non perdere il volo.
Lei cercò di non concentrarsi sulla gente, ma di guardarsi intorno. L'enorme struttura, bianca e moderna, saltava subito all'occhio. La scelta di utilizzare pilastri di ferro riverniciati a sostegno del soffitto lo faceva somigliare ad una gigantesca ragnatela, senza però formare un disegno geometrico preciso. Una gigantesca bandiera americana era stata appesa al centro del soffitto e scendeva verso il basso per una lunghezza che Amy stimò di forse quattro metri. Ondeggiava appena spinta dalle ventole dell'aria condizionata, che ronzavano mescolandosi al brusio della gente.
Mentre superavano il lungo mezzanino sopra le loro teste, Tom la superò e le fece cenno di seguirla, superando le due lunghe file che avevano davanti per raggiungerne una più corta, alla loro sinistra.
«Come lo sapevi che c'era questa fila?» gli domandò, stupita della velocità con cui la aveva individuata.
«Non lo sapevo, Amy. Mi sono guardato intorno rapidamente e la ho vista. Te la consiglio, è un'ottima tattica» le rispose. Lei ridacchiò, mentre scalava verso il check-in.
L'ultima volta che era stata in aeroporto, due anni prima, era rimasta quasi quaranta minuti ferma in coda. Se non ci fosse stato un fortuito ritardo del volo, sarebbe rimasta lì per altre quattro ore ad attendere il successivo.
«Signorina, tutti i dispositivi elettronici e i corpi in metallo qui» le disse uno degli addetti, indicandole una vaschetta di plastica, «e la valigia la può lasciare sul rullo.»
Amy si accigliò nel notare che era già il suo turno. Seguì le istruzioni lasciando il cellulare e la cintura nera nella vaschetta, accanto al trolley, e superò senza problemi il metal detector. Una volta dall'altra parte aspettò che la raggiungesse Tom.
Dopo aver mostrato i biglietti ad un secondo addetto, si diressero verso la sala d'aspetto al terminal 1.
L'enorme vetrata dava sulla pista, dove sostavano una decina di aerei in attesa del decollo.
Le lunghe file di sedili in pelle scuri erano quasi vuote. Amy si accomodò accanto a Tom, vicino alla parete di vetro spesso e incrostato da un sottile strato di pulviscolo all'esterno. Il forte odore di detergente le invase le narici, mentre li superava un addetto alle pulizie.
Poco sopra la testa di Harris, appeso alla parete, un grande monitor mostrava i vari voli in procinto di decollare. Li lesse rapidamente ma non trovò ancora il loro.
«Ti vedo un po' agitata. È per l'aspettativa o per il volo?» le domandò lui, cercando di distrarla.
«L'aspettativa, credo, se la si può definire così. Non sono molto nervosa per il volo, non ho mai avuto paura di volare. L'unica cosa che forse mi annoierà saranno le quasi quindici ore da qui a Salta.»
«Per non parlare dell'attesa qui e all'aeroporto laggiù. Saremo in hotel a mezzanotte.»
«E invece» lo interruppe, «non mi hai più detto in che albergo alloggeremo. Spero che Foster non se ne sia dimenticato...»
«No, no. Hotel Almería, quattro stelle a mezzo chilometro dal centro.»
«E dall'aeroporto?»
«Non so, ora controllo.» Estrasse dalla tasca il cellulare e aprì la applicazione 'Mappe'.
Da quel che Amy scorse, Tom cercò l'albergo e cliccò sulle indicazioni, impostando come partenza l'aeroporto. In pochi secondi si caricò il percorso colorato in azzurro.
«Poco più di venti minuti.»
«Davvero ottimi, direi» disse, pensierosa. «E ti ha anche comunicato a che ora passerà a prenderci?»
«Nove, nove e mezza più o meno. Sembra presto ma possiamo dormire anche in aereo. Ha davvero pensato a tutto.»
«Gli interessa davvero la nostra collaborazione.»
«Evidentemente» le rispose, rimettendosi il cellulare nella tasca, «ma forse ha più paura che curiosità nei confronti dell'animale, non credi?»
Lei annuì, sbuffando. «Potrebbe essere una delle scoperte più importanti della storia delle scienze, Tom. Se davvero fosse così, se potessimo davvero vedere un dinosauro vivo, tutto cambierebbe, davvero. Mi delude il suo atteggiamento in questa faccenda. Nasconderci il sangue, la morte dell'operaio... non credo volesse arrivare a questo.»
«In che senso?»
«Nel senso» abbassò la voce come vide arrivare improvvisamente un gran numero di persone, «che pensavo che quel suo comportamento avesse come fine quello di scoprire il problema per neutralizzarlo da solo, o comunque senza l'aiuto di esterni come noi, provenienti da più di cinquemila chilometri di distanza. Se l'incidente fosse in realtà dipeso da un problema sulla sicurezza, la sua vita professionale sarebbe finita, e forse anche quella personale. Se la morte di quell'operaio dipendesse direttamente da lui, finirebbe in carcere con l'accusa di omicidio colposo, Tom. Chiamare gente come ha fatto lui potrebbe risultare una mossa azzardata. La notizia si sarebbe potuta diffondere a macchia d'olio.»
Lo sguardo serio di Harris le fece capire che stava comprendendo. «E poi c'è l'articolo su Internet.»
Lei annuì. «Esatto. Non parla delle responsabilità dell'incidente, specificando invece che non si sa ancora come sia avvenuto, ma sono passati dodici giorni. Prima o poi i media si insospettiranno e si prepareranno a divulgare le peggiori teorie al riguardo, e Foster si ritroverà con le spalle al muro.»
«E allora chiama noi per salvarlo, rischiando comunque di ficcarsi in altri guai? Mi sembra un piano un po' contorto e sinceramente non ne capisco lo scopo.»
«A parte esonerarsi completamente dalle colpe? Lui ha inviato quegli operai in una caverna comparsa dopo che una detonazione ne aveva fatto saltare il tappo che la bloccava dal mondo esterno. Non sapeva nulla di quello che avrebbe trovato, ne di chi avrebbe trovato, ma se ne è ugualmente fregato. E ora ha un morto sulla coscienza. Hai presente che si dice che anche la gente da morta può fartela pagare comunque?»
Lui annuì, confuso.
«Questo è uno di quei casi.»

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