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Sarah King, seduta da sola nel laboratorio dell'Istituto di malattie tropicali, osservava con il microscopio l'ingrandimento del piccolo dente che era stato inviato dal Sudamerica diversi giorni prima per rintracciare la specie a cui apparteneva.
Seguendo con gli occhi il bordo seghettato del campione, distorto alle estremità dalla lente arrotondata, Sarah ripensò agli articoli che aveva letto sulla morte dell'operaio nella cava e le descrizioni dei segni trovati sul corpo dell'uomo durante l'autopsia nell'ospedale della città argentina. Ora che fissava il dente, quelle immagini risultavano ancora più vivide, stagliate con chiarezza nella sua mente.
Negli ultimi giorni aveva continuato a collegarsi al web per verificare se ci fossero stati altri sviluppi sul caso, oppure se fossero state rilasciate nuove dichiarazioni dall'obitorio dell'ospedale o dal direttore della cava dove era deceduto l'uomo, ma le notizie si interrompevano dopo due giorni dall'incidente, con un breve articolo che riguardava il funerale dell'uomo.
Nulla che potesse aiutarla.
Sbuffando, alzò gli occhi dall'oculare metallico e guardò distrattamente fuori dalle finestre di fronte a lei, sulla parete opposta della stanza. La neve continuava a cadere, assiduamente, e non accennava a diminuire. Sarah seguì distrattamente i fiocchi che piroettavano nel vento sperando che distrarsi potesse aiutarla a schiarirsi le idee e giungere a qualche nuova conclusione, ma senza alcun risultato. Sentiva la mente vuota, come se in quel momento non avesse posto per immagazzinare altre informazioni. Hai solo bisogno di dormire. Disse a ste stessa, sentendosi all'improvviso addosso tutta lo sfinimento accumulato negli ultimi giorni. Suo figlio Michael, di un anno e mezzo, non faceva altro che svegliarsi nel cuore della notte perché assetato o perché, più subdolamente, non si sentiva più a suo agio ad utilizzare il pannolino.
Per Sarah, le notti erano diventate frenetiche corse da una stanza all'altra dell'appartamento alternate a brevi momenti di sonno.
John aveva insistito affinché chiamasse qualcuno che potesse occuparsi del figlio mentre lei recuperava le ore di sonno che aveva perso negli ultimi mesi, ma lei era stata irremovibile. Avrebbe preso in considerazione quell'offerta solo dopo che la dottoressa Su li avesse chiamati e avesse comunicato loro cosa aveva scoperto in Sudamerica.
Sbadigliando, Sarah distolse l'attenzione dalle finestre e lanciò qualche occhiata distratta tutt'intorno. Il laboratorio, una stanza allungata e asettica, era debolmente illuminato dalla fioca luce del sole che filtrava dai vetri sulle pareti. Nell'aria aleggiava un pungente odore di disinfettante, mescolato a quello forte dell'etanolo proveniente dallo scomparto sotto il banco da lavoro. Sarah conosceva quelle fragranze più dell'odore di casa sua, ormai.
La porta del laboratorio si aprì di colpo, strappandola dai suoi pensieri e riportandola bruscamente al presente. John Hoyle attraversò la stanza reggendo in mano due bicchierini fumanti in plastica biodegradabile. Gliene offrì uno, sedendosi su uno sgabello che prese da sotto il tavolo.
Sarah guardò la bevanda scura nel proprio bicchierino, esitante. «Sai che odio questa schifezza, John» gli disse, assaggiando il caffè istantaneo. Il gusto era orribile, nonostante fosse stato zuccherato fin troppo, ma il bisogno di caffeina prevalse sull'avversione per la bevanda. Lo bevve in fretta, appoggiando il bicchierino sul tavolo.
«Purtroppo, non hanno ancora costruito la caffetteria che tanto vorresti in questo edificio, quindi ti dovrai accontentare.» le disse lui, con un sorriso divertito.
«Solo tu puoi sopravvivere con questa roba senza lamentarti.»
«Solo tu puoi attraversare un isolato per prenderti una tazza di caffè.»
«Touché.» Sarah scoppiò a ridere.
John prese il telescopio con la mano libera e lo ruotò verso di lui, avvicinandosi e guardando il campione sul vetrino. «Ancora con questo dente?» le domandò, continuando a fissare con gli occhi negli oculari.
«Hai già rinunciato a cercare di capire a che animale possa appartenere?» gli chiese lei.
Hoyle ruotò la manopola per mettere a fuoco l'immagine. «Sì, e penso dovresti farlo anche tu. Hai sentito la dottoressa Su e il professor Harris, no? Secondo loro potrebbe trattarsi di un dinosauro, o di un'altra specie preistorica. La cosa migliore che possiamo fare al momento è aspettare che ci contattino per riferirci cos'hanno scoperto. Sei l'ombra di te stessa. Da quant'è che non chiudi occhio?»
Sarah sospirò, passandosi le mani sul viso, come se quel gesto potesse cancellare le tracce delle ultime notti insonni. «Ho bisogno di tenermi occupata.»
«No,» John si infilò un paio di guanti in lattice e, delicatamente, prese il dente dal vetrino e lo rimise nel contenitore per il freezer, «al contrario: hai bisogno di distrarti.»
«Mi distraggo tenendomi occupata.» replicò lei, abbandonandosi contro lo schienale della sedia.
«Dovevo immaginarlo» Hoyle le sorrise e si sistemò le pieghe del camice, incamminandosi verso l'uscita del laboratorio. Prima di uscire dalla stanza, però, si fermò di colpo sulla soglia e infilò una mano in tasca, estraendo una piccola bottiglia in vetro, vuota, con un'etichetta scritta in pennarello. «Ah, stavo quasi per dimenticarmi. Di là ho finito la formaldeide. Non è che ti dispiacerebbe chiedere a Martha se ne può ordinare dell'altra mentre finisco i rapporti dell'ultimo mese? Grazie mille.» Gliela consegnò.
Sarah alzò gli occhi al cielo. «Stavo quasi per illudermi che il caffè di prima fosse stata una semplice gentilezza. Certo, nessun problema.»
Lui le fece l'occhiolino e si chiuse la porta alle spalle. Lei si alzò in piedi con la bottiglietta in mano e raggiunse la porta che collegava il secondo laboratorio con il corridoio che tagliava longitudinalmente il piano dell'Istituto.
Raggiunse la sala d'aspetto e appoggiò la bottiglietta sul banco della segreteria. Martha Malone, ventisette anni, castana, con un paio di occhiali con lenti spesse, alzò lo sguardo dal computer e guardò il contenitore in vetro sul banco, scuotendo il capo. «Un altro ordine? I reagenti in questo laboratorio spariscono come le caramelle nella sala d'aspetto di un dentista. Va bene, tra due minuti invio l'ordinazione.»
Sarah sorrise, annuendo. «Ti meriti una cena da Davide, Martha, sul serio.»
Lei prese la bottiglietta e lesse distrattamente l'etichetta. «Non posso permettermi Davide, altrimenti non sarei qui a cercare di decifrare la scrittura assolutamente illeggibile del mio datore di lavoro.»
«Ci penso io a parlare con John.» Sarah si voltò e tornò verso il laboratorio, infilando le mani nelle ampie tasche del camice e rigirandosi tra le dita una piccola siringa di scorta che teneva sempre con sé. A metà strada, il rumore improvviso della porta che si apriva alle sue spalle la fece fermare di botto, nel cono di luce di una delle lampade al neon.
Abbagliata dalla forte luce sopra di sé, fece un passo avanti e si girò verso l'entrata, strizzando gli occhi per mettere a fuoco l'immagine. L'uomo che era appena entrato era alto, robusto, il viso celato da una sciarpa e il capo coperto da un berretto.
Sarah avvertì i muscoli del proprio corpo entrare in tensione mentre fissava l'energumeno che si avvicinava al banco della segreteria. Smise di respirare.
Martha sollevò lo sguardo su di lui. «Posso fare qualcosa per lei?»
«Lo spero.» il viso butterato dell'uomo si contrasse in una smorfia. La sua voce era un sussurro, con un forte accento dell'Europa dell'Est. «Stavo cercando il dottor John Hoyle e la sua assistente, sa dove posso trovarli? Spero di non aver sbagliato indirizzo, mi è stato detto che li avrei potuti trovare qui.»
Martha lanciò una rapida occhiata a Sarah, con la coda nell'occhio, prima di tornare a fissare l'uomo, accigliata. «Ha preso appuntamento? Ha contattato il dottor Hoyle o la dottoressa King prima di venire qui? O per caso lavora in qualcuna delle università in città?»
L'uomo scosse la testa, allungandosi sul banco, e facendosi subito serio. «Per favore, si limiti a rispondere alla domanda.»
Martha si irrigidì sulla sedia, allungando una mano verso il telefono cordless accanto al computer. «Mi dispiace, ma non posso darle quest'informazione a meno che lei non mi esponga la ragione per cui la richiede.»
Prima che Sarah potesse intervenire, l'uomo infilò la mano sotto la giacca e sfilò una pistola, che puntò alla segretaria. La dottoressa si sforzò di non gridare. L'assassino riprese: «Non glielo domanderò una terza volta, quindi le conviene rispondermi, altrimenti premerò il grilletto. Collabori, non sia sciocca.»
La segretaria, terrorizzata, lanciò un'altra occhiata a Sarah, soffermandosi per un secondo su di lei, gli occhi lucidi. Il suo viso era una maschera di terrore. Quando Martha tornò voltarsi verso il killer che torreggiava su di lei, Sarah si accorse che l'attenzione dell'uomo non era più rivolta alla segretaria, ora, ma a lei.
Oddio... Sarah cercò di indietreggiare, ma sentiva le membra di marmo, come se fosse diventata improvvisamente di pietra.
Gli occhi dell'aguzzino, parzialmente coperti da ciuffi di capelli grigi che ricadevano da sotto il berretto, avevano una sinistra sfumatura arancione che le ricordò i demoni che aveva visto da piccola in alcuni orribili quadri che ritraevano l'inferno biblico.
Trattenendo il fiato, sostenne il suo sguardo, sentendo il battito del proprio cuore amplificato nel silenzio della stanza.
«E lei chi sarebbe? L'assistente di Hoyle, per caso?» le chiese, risoluto. «Svelta, risponda, o ammazzerò sia lei, sia la sua amica.»
Martha gemette, stringendo le dita attorno i braccioli della sedia. Sarah si sentiva con le spalle al muro. Che cosa avrebbe dovuto fare? Rivelare chi fosse, dirgli la verità? A che scopo? Se non l'avesse fatto, sarebbe morta, e come lei anche Martha, ma se invece glielo avesse detto? Probabilmente ci ucciderà comunque, per non correre il rischio di lasciare testimoni.
Improvvisamente, Martha si alzò in piedi e si scagliò contro l'assassino, rompendogli in testa la bottiglietta di vetro della formaldeide, e tentando di colpirlo con il telefono cordless, stretto in mano, ma lui fu più rapido. I frammenti di vetro caddero a terra.
Le prese il polso, bloccandole il braccio in aria, e la spinse violentemente all'indietro. Martha superò la scrivania in volo e cadde a terra, colpendo il pavimento con la testa.
Il sangue prese ad allargarsi dalla nuca, tingendo di rosso le piastrelle bianche della stanza.
Sarah lanciò un grido e si voltò di scatto, iniziando a correre. Dietro di lei, sentì Il fruscio della manica del killer che le puntava contro la pistola. Lo sparo echeggiò nel corridoio, mentre il proiettile le sfiorava la base del collo, andando a conficcarsi nella parete di cartongesso.
Afferrò la maniglia del bagno delle donne quando un secondo proiettile le scalfì il braccio sinistro, strappandole un gemito di dolore, e aprì la porta rifugiandosi nello stretto locale. Una volta dentro, si gettò di scatto con la schiena contro la porta nonostante fosse più che certa di non poter resistere contro la forza dell'assassino.
Appoggiò l'orecchio contro la porta, in attesa, ma quello che sentì la lasciò del tutto disorientata. Silenzio.
Prima che avesse il tempo di capire quello che era successo, la risposta si materializzò di colpo nella sua mente. Si irrigidì, stringendo tra le dita il bordo del camice, mentre un rivolo di sangue prese a scorrerle dalla ferita sotto la spalla, raccogliendosi nel palmo della mano. In quel momento, però, ogni cosa era passata in secondo piano. Nella sua mente, continuava ad echeggiarle un nome, incessante, mentre si sentiva assalire da un conato. John.

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