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Il guardacaccia Hernando Ramirez stava sorseggiando da un piccolo bicchiere biodegradabile un goccio d'acqua che sapeva di cloro, mentre osservava la città illuminata dal sole di metà mattina dalla finestra del suo ufficio.
Quarantadue anni, un fisico da nuotatore e due matrimoni falliti, Ramirez si considerava l'uomo più felice del mondo. I suoi colleghi gli avevano spesso suggerito di cercare ancora una donna con cui costruirsi una relazione stabile, ma lui ormai non ne voleva più sapere.
Leggendarie erano le sue scampagnate serali con le ragazze universitarie che cercavano uomini maturi e, ubriache durante le feste il sabato, lo fermavano con la macchina e si facevano dare un passaggio, per poi scomparire imbarazzate il giorno seguente una volta appreso il loro errore.
A lui non dispiaceva e, anzi, avrebbe continuato con quello stile di vita per molti altri anni, per quanto gli era ancora possibile.
Quando ripensava a quel suo passatempo, gli tornava sempre il buonumore, e si dimenticava in fretta dei problemi lavorativi e personali.
Quella mattina, però, si sentiva diverso, peggio degli altri giorni. Era da poco meno di due settimane che dormiva a fatica la notte e arrivava al lavoro in ritardo.
I suoi colleghi se ne erano accorti e, ogni volta che passava in corridoio, lo guardavano di sfuggita fingendo di non vederlo e di essere impegnati a discutere di questioni importanti.
Col tempo aveva imparato a farci l'abitudine. Non poteva biasimarli.
La sua faccia spaventava perfino lui in quegli ultimi giorni. Si era lasciato crescere la barba e le occhiaie erano sempre più evidenti.
Si girò dalla finestra e andò a sedersi alla propria postazione, ondeggiando sulle molle della sedia girevole. Appoggiò una mano sul ripiano di plastica grigia della scrivania e le dita sfiorarono il giornale che era sempre lì da dodici giorni. Guardandolo, si rese conto che pareva fosse rimasto appiccicato al cofano di un fuoristrada durante una corsa nella foresta.
Lo prese in mano, abituato al famigliare tocco della carta rovinata e sporca di caffè, i bordi strappati e il numero consistente di pagine in meno.
Lo aveva consultato praticamente ogni giorno da quando la sua segretaria glielo aveva portato in ufficio e ogni volta non trovava nulla di nuovo, nulla di diverso o che potesse rivelarsi essere la risposta alla domanda implicita che suggeriva il titolo. Lo lesse nuovamente.

OPERAIO UCCISO SUL POSTO DI LAVORO. FORSE SBRANATO

L'articolo poi si dilungava sulla descrizione piuttosto vaga delle condizioni dell'uomo e della cava dove lavorava, ipotizzando potesse essere un incidente causato dalla scarsa attenzione per la sicurezza.
Non è stato un incidente. Pensò, guardandosi ancora le poche parole che aveva sottolineato. È stato decisamente sbranato, ma da cosa?
Riguardando i caratteri evidenziati non notò nient'altro di diverso.
Ferite... tagli... veleno... odore di marcio... segni di sbranamento... morto in pochi minuti.
Quella breve letta servì solo a farlo rabbrividire nuovamente, e scartò quella pagina per passare a quella di pochi giorni dopo, in cui si annunciava del suo funerale. Dall'autopsia non erano emersi altri particolari importanti, così non avevano avuto altro motivi per trattenere il corpo e avevano concesso la sepoltura.
Mentre cercava di riordinare i pensieri nella mente, udì un ritmico bussare alla porta.
Non fece in tempo ad aprire bocca che la porta si spalancò, rivelando l'imponente figura della sua segretaria.
Marcia Cabrera, cinquantasei anni, i capelli vaporosi di un castano scuro, un forte odore di fumo e i denti ingialliti dalla nicotina da fumatrice accanita, gli rivolse un rapido cenno col capo cercando di simulare al contempo un radioso sorriso.
L'effetto era alquanto spaventoso, ma Hernando si sforzò di contraccambiare.
«Ti trovo bene Mars» le disse.
Lei fece una smorfia. «Sembro sempre più Agatha della banda Fratelli, ma ho sempre pensato che i tuoi gusti in fatto di donne fossero alquanto discutibili.»
«Aha» ridacchiò Hernando, alzandosi in piedi e raggiungendola. Le cinse le spalle con le braccia e il forte odore di sigaretta gli pizzicò il naso. «Be'? Che cosa mi porti oggi?»
Lei si scostò e gli indicò un uomo in piedi in corridoio con un cenno del capo.
«Piacere, lei è?» domandò Ramirez.
L'uomo gli allungò la mano. «Alonso Perez, anatomo patologo all'Ospedale San Bernardo.»
Hernando ricambiò la stretta. «Onorato, dottore. Mi chiedo cosa la abbia spinta a venire qui da me. Sono curioso, ad essere sincero.»
Perez gli rivolse un sguardo imbarazzato.
«Immagino abbia letto il giornale ultimamente. Come penso lei sappia, mi occupo di effettuare autopsie e mi sono reso conto di alcuni strani particolari in uno dei miei ultimi casi. Avevo bisogno del suo parere di esperto della fauna locale.»
Quando concluse, Hernando si sentì in un attimo al settimo cielo, e il sorriso che gli rivolse gli uscì così spontaneamente che cercò di mascherarlo annuendo.
«A sua disposizione, dottore. Sarò lieto di rispondere a tutte le domande che vorrà pormi. Come lo preferisce lei il caffè? Latte, zucchero?»
«Io sono abituato a prenderlo amaro, ma non si deve disturbare» gli rispose, scuotendo il capo.
«Si figuri. Marcia, se per favore puoi portarcene due.» La donna annuì con una smorfia, girando sui tacchi e camminando a passo svelto verso le macchinette dall'altra parte del piano.
Il guardacaccia si spostò e invitò Perez ad accomodarsi nell'ufficio, seguendolo subito dopo.
Appena il dottore si sedette, si schiarì la voce e si allungò sulla scrivania, prendendo l'articolo di giornale che parlava del decesso dell'operaio.
Hernando immaginò stesse per iniziare un discorso, ma si accorse che si era ammutolito, lo sguardo preso dal foglio rovinato e le dita tremanti.
«Era quello l'articolo?» gli domandò.
L'uomo annuì, tossendo e riposandolo sul ripiano. «Proprio questo. Vedo che lo ha consultato spesso questi ultimi giorni.»
«Mi ha colpito, diciamo che rientra nelle mie competenze. Se quell'uomo è stato davvero sbranato bisogna subito intervenire, arginare il problema e verificare che sia un caso isolato. Procedure standard, a dire la verità, nulla di difficile o altro. Forse solo un attimo impegnativo. Che cosa voleva chiedermi?»
Perez esitò, allungando il dito prima sopra la parola "veleno" e poi sopra "segni di sbranamento".
«Questi sono i punti che ci hanno suscitato più dubbi. In primo luogo perché sono due termini che difficilmente si riscontrano su una vittima di un attacco animale.»
«Non capisco» commentò Ramirez, curioso di come il dottore aveva iniziato il discorso.
«Non sarò un esperto quanto lei, ma credo proprio che afferrerà il mio ragionamento. Se un animale è velenoso, come un serpente o un ragno, la prima cosa che fa solitamente è mordere per iniettare il veleno nella preda e poi consumarla con calma, mentre in questo caso sembrava come se l'uomo fosse stato attaccato ferocemente e, mentre accadeva, la saliva velenosa scivolava nelle ferite aperte e lo immobilizzava in un secondo momento. Non le sembra un comportamento insolito?»
Hernando esitò a rispondergli, cercando di immaginarsi la sequenza appena descritta e paragonandola ad altri casi simili. Non gli venne in mente nulla.
Probabilmente ha ragione. Pensò, grattandosi il mento. Ma dove vuole andare a parare?
«Insolito, ma potrebbe anche trattarsi di una nuova specie mai scoperta, che è improvvisamente emersa da qualche girone infernale e ha banchettato con un nostro sfortunato connazionale. In quel caso no, non sarebbe insolito.»
«In realtà ci ho riflettuto molto e sono arrivato ad un altra conclusione.»
Ramirez si allungò per ascoltare meglio.
«Mi sembra uno stile di caccia sviluppato per concorrenza. Ora mi spiego. Si immagini di essere un animale carnivoro di modeste dimensioni in una terra popolata da giganti sia erbivori che carnivori come lei. Gli erbivori sarebbero soprattuto cacciati da questi giganti e lei, per sopravvivere, si deve inventare qualcos'altro, e cosa le rimedia Madre Natura?»
«Il veleno?» provò il guardacaccia, continuando a non capire.
Perez annuì. «Quello sicuramente, ma si immagina che possa bastare? Non credo proprio. Si ritroverebbe con un cadavere ancora esposto ai grandi predatori, e tutto sarebbe risultato inutile. Potrebbe trascinarlo al sicuro nella sua tana, ma se si trovasse lontano? Che farebbe?»
Hernando cominciò finalmente a capire e gli rispose con il suo stesso esempio. «Divorerei la mia preda il prima possibile e cercherei di ferirla in punti strategici se si dovesse risvegliare o il veleno non avesse effetto immediato. Quindi lei sostiene che questo animale abbia concorrenza? Ma scusi, gli animali più grandi in questa regione sono puma, giaguari e caimani. L'animale da lei descritto dovrebbe essere molto piccolo, ma allora non in grado di uccidere in un modo così brutale un uomo.»
Perez gli sorrise pazientemente.
«E se quell'animale non avesse più la concorrenza ma avesse mantenuto quel particolare stile di caccia? L'Argentina è piuttosto famosa per essere stata la terra di giganteschi predatori, no?»
«Mi spiace ma non so a cosa si stia riferendo.»
«Mi perdoni, ma stento a credere che non conosca i dinosauri.»

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