Nulla di quanto aveva letto in proposito lo aveva preparato a quello che stava vedendo in quel momento.
Sconcertato, Tom Harris ci mise alcuni minuti per riuscire a convincersi che ciò che aveva davanti non fosse frutto di un'allucinazione. La scena era talmente surreale e macabra che chiuse gli occhi e li riaprì, sperando di aver visto male.
Si trovavano ai margini di uno spiazzo circolare, con un diametro di circa trenta metri, illuminato da lunghe lame di luce che filtravano attraverso l'enorme squarcio che si apriva come una voragine tra le fronde degli alberi decine di metri sopra di loro.
Lungo il perimetro della radura, appena visibili per via della fitta vegetazione, c'erano decine di scheletri di grandi dimensioni in avanzato stato di decomposizione, molti dei quali circondati da nugoli di insetti, segno evidente che oltre alle ossa dovevano esserci ancora dei brandelli di carne. L'odore di morte nell'aria era nauseabondo.
Tappandosi il naso con la mano e reprimendo a stento un conato di vomito, Tom cercò di individuare lo scheletro più vicino a loro oltre la spalla di Rivas. Ci mise solo un secondo.
A meno di dieci metri sulla loro destra, dietro ad un grosso tronco, vide chiaramente due file di sette ossa alte più di due metri che sembravano quasi un'enorme mano scheletrica che spuntavano dal terreno, le cui lunghe dita curvavano leggermente verso l'esterno creando un grande spazio vuoto nel mezzo. L'immagine gli ricordò una famosa scena di un film di morti viventi che aveva visto diversi anni prima, da ragazzo.
Seguendo la curvatura delle ossa e calcolando la distanza che separava le estremità capì che si trattava di una gabbia toracica abbastanza grande da poter contenere un'utilitaria. Ripensò alla sua Ford Fiesta che aveva lasciato al JFK di New York e gli sembrò che fosse passata un'eternità da quando era partito dagli Stati Uniti, quando invece erano trascorsi poco più di due giorni.
Rivas parve cogliere i suoi pensieri. «Be' professore, adesso può dire di aver visto tutto» sussurrò, con il suo solito ghigno. «Come procediamo?»
Harris si strinse nelle spalle, valutando le possibilità. Il buonsenso gli diceva di tornarsene al camper, ma la curiosità intellettuale prevaleva sulla prudenza. Aveva passato gli ultimi dieci giorni lottando con i propri dubbi per convincersi che i dinosauri fossero in qualche modo riusciti a sopravvivere all'estinzione, ma la scarsità di dati in suo possesso e gli strani risultati ricavati dalle analisi al dente e alla saliva nel laboratorio del dottor Hoyle non avevano fatto che accrescere il suo scetticismo.
In quel momento, però, si rese conto di trovarsi di fronte ad un'opportunità unica. Passò in rassegna i vari scheletri e si sentì come un bambino la mattina di Natale, intento a scegliere quale regalo scartare per primo.
«È possibile avvicinarsi a quello scheletro?» domandò, indicando le ossa che spuntavano da dietro il tronco, a pochi metri di distanza.
«Credo di sì» gli rispose Rivas, voltandosi e coprendosi gli occhi con la mano, «ma non lasciatevi ingannare dal fatto che siano così vicine. Dovrete seguire attentamente le mie istruzioni.»
Harris e Franco rimasero ad ascoltare mentre Rivas illustrava loro il piano. Quando terminò, Harris dovette ammettere di aver sottovalutato i pericoli a cui sarebbero potuti andare incontro, ma si rese conto che era l'unico modo che avevano di avvicinarsi allo scheletro senza correre rischi.
«D'accordo» gli rispose, cercando di nascondere il proprio nervosismo.
«Bene. Restate dietro dietro di me, tenete le pistole pronte, ma aspettate a rimuovere la sicura. Devo avere la certezza che nessuno di voi mi conficchi un proiettile nella schiena appena sente un ramo che si spezza.» Rivas annuì deciso e si voltò, incamminandosi fra gli alberi. «Ricordatevi, non abbassate mai la guardia. I leopardi possono attaccare saltando dalle cime degli alberi, e purtroppo si tratta di una tattica di caccia che funziona, perciò guardatevi attorno a trecentosessanta gradi.»
Confortante. Si disse Tom, lanciando una rapida occhiata sopra di lui, mentre seguiva il cacciatore tra gli alberi. In quel punto la foresta era più fitta e lo spazio tra gli alberi era largo appena da permettere loro di passare. Di bene in meglio. Pensò, quasi asfissiato dalle mefitiche esalazioni che provenivano dalle carcasse in decomposizione.
Quando il gruppo riemerse dagli alberi, Rivas avanzò lentamente verso il grosso tronco dietro al quale spuntavano le due file di costole alte quasi due metri e si guardò attentamente intorno, avvicinando le dita alla sicura della pistola. Poi si voltò e fece cenno loro di raggiungerlo. Tom si coprì il naso con la mano sforzandosi di non svenire a causa del tanfo e, con il cuore che gli martellava nel petto, girò attorno al tronco e si lasciò sfuggire un'esclamazione di stupore.
Pochi minuti prima, quando aveva individuato le ossa, aveva cercato di calcolare le dimensioni dell'animale basandosi sulla circonferenza della cassa toracica, ma viste di persona erano molto più impressionanti.
Mentre si avvicinava per vederlo più chiaramente, cercò di dare un senso a quello che aveva davanti. Lo scheletro era lungo più di dodici metri e giaceva disteso su un fianco, con il collo e la coda leggermente piegati all'indietro e le zampe raccolte sotto il ventre.
La vegetazione aveva già cominciato a crescere intorno alle ossa e alcuni rampicanti erano riusciti a raggiungere i due metri di altezza arrampicandosi sulle costole, ma i contorni dell'animale erano ancora perfettamente delineati.
Gli ricordò l'immagine di una balena spiaggiata ritrovata due anni prima sulla spiaggia vicino a Breezy Point, nella penisola di Long Island. Si chiese se anche quel dinosauro si fosse trascinato in fin di vita fino in quel punto e poi si fosse lasciato morire, oppure se fosse stato attaccato da un predatore.
«Professore?» gli domandò Rivas, avvicinandosi.
Harris non rispose. Più guardava l'animale, più si convinceva di trovarsi di fronte ad un'occasione più unica che rara per studiare quegli animali. Questo scheletro non è un fossile! Pensò, incapace di contenere l'entusiasmo. E molto probabilmente è anche completo.
«Di che specie si tratta?»
«È un sauropode» gli disse, girando intorno alla carcassa per studiarla più attentamente, «come il brachiosauro, l'apatosauro, il camarasauro... Vede la testa di piccole dimensioni, il collo e la coda molto lunghi e sottili, il ventre di grandi dimensioni e gli arti colonnari?»
«Deve trattarsi di un cucciolo, però» obiettò il cacciatore, aggrottando la fronte, «mi sembra di ricordare che il brachiosauro fosse lungo quasi trenta metri.»
Harris dovette ammettere che in parte aveva ragione. La maggior parte dei sauropodi superava i venti metri di lunghezza e alcuni, come il supersauro e il seismosauro, raggiungevano addirittura i quaranta metri. Per decenni i sauropodi erano stati indicati dai paleontologi come la prova che i dinosauri fossero animali a sangue freddo, impacciati nei movimenti e incapaci di sostenere il proprio peso. Negli ultimi anni, però, come Tom aveva appreso, erano passati da un estremo all'altro. I loro arti, al contrario di quegli dei rettili attuali, erano straordinariamente lunghi e robusti, perfettamente in grado di sorreggere l'animale sulla terraferma. Inoltre, l'eccezionale lunghezza del collo avrebbe rappresentato un problema nel caso in cui il dinosauro avesse avuto un cuore a tre comparti, che non sarebbero bastati a generare una spinta necessaria a pompare il sangue fino al cervello.
Harris superò la coda con un balzo e si avvicinò al collo. Benché le dimensioni dell'animale fossero decisamente piccole in confronto con quelle di altri sauropodi, lo scheletro che aveva davanti era ugualmente imponente. Aggirò la cassa toracica e si chinò ad osservare le vertebre cervicali. Quando le ebbe davanti, tutto fu chiaro.
A terra c'erano decine di frammenti ossei simili a spugne, sparse intorno alle vertebre cervicali e toraciche. Alcuni sembravano combaciare, come pezzi di un puzzle. Ne raccolse uno e si alzò in piedi, guardando il cacciatore.
«Non si tratta di un cucciolo» gli disse, rigirandosi il frammento in mano, «credo di aver capito a che specie appartiene.»
Gli riferì brevemente che pochi mesi prima aveva letto un articolo che spiegava come alcuni sauropodi sudamericani si fossero evoluti differentemente rispetto alle specie nordamericane, favorendo mezzi di difesa come mazze ossee all'estremità delle code o lunghe spine su più punti del corpo, invece delle grandi dimensioni.
La specie che aveva acceso il dibattito era stata rinvenuta per la prima volta nel 1977, vicino alla città di Salta, nel nordovest dell'Argentina, e presentava una corazza composta da placche ossee ricoperte da tubercoli, i cui resti fossili erano stati inizialmente ritenuti appartenere a un anchilosauro.
«Saltasaurus loricatus. Sauropode erbivoro del Cretacico superiore vissuto in Argentina. L'olotipo è stato descritto trent'anni fa da José Bonaparte e Jaime Powell, e in breve la scoperta obbligò i paleontologi a riconsiderare le loro idee sui sauropodi, convinti che la taglia gigantesca fosse una difesa più che sufficiente a questi animali contro i predatori.» Si asciugò la fronte sudata e ridacchiò. Se solo avessero saputo che scavando qualche chilometro più in là ne avrebbero trovato uno vivo...
Mentre riabbassava lo sguardo per studiare il frammento osseo che aveva raccolto, l'occhio gli cadde su alcune vertebre cervicali visibilmente fuori posto.
Con la testa che gli girava per via dell'odore nauseante, si chinò per studiarle con più attenzione, trattenendo il respiro. Appena le ebbe davanti si sentì mancare. Poco al di sopra della cassa toracica, alcune vertebre cervicali erano state frantumate e il collo piegato all'indietro in una posizione assolutamente innaturale. Tremante, alzò di scatto lo sguardo e fissò Rivas, con il cuore che gli martellava nel petto.
«Strangolato» gli disse, con un filo di voce. «Un grosso predatore deve averlo morso al collo e il saltasauro è morto per asfissia. È una strategia di caccia di cui si servono anche alcuni grandi felini come i leoni e i ghepardi per finire prima una preda.»
Evian si avvicinò rimanendo dall'altro lato del collo e osservò le vertebre, passando le dita sulla superficie ruvida delle ossa. Poi annuì. «Quanto doveva essere grande? Ha già in mente una specie?»
Tom si spostò verso le zampe posteriori della carcassa, cercando di raccogliere le idee. Il saltasauro poteva raggiungere un'altezza di circa tre metri e mezzo, e considerando il punto dove le vertebre erano state frantumate, anche il predatore doveva avere dimensioni simili.
Sforzandosi di ricordare se fossero state scoperte di recente delle specie di dinosauri predatori che avessero mai potuto attaccare un saltasauro adulto, spostò la sua attenzione dallo scheletro del sauropode alla radura. Per un decimo di secondo, una delle ombre formate dagli alberi al capo opposto dello spiazzo attirò la sua attenzione. La sagoma si mosse appena, alzandosi e abbassandosi, per poi tornare immobile.
Tom avvertì un senso di disagio. In quel momento l'ombra era perfettamente mimetizzata tra i tronchi degli alberi e, se non l'avesse vista muoversi, non si sarebbe neppure accorto che ci fosse. Adesso però è difficile non notarla. Pensò, ricordandosi di quando era rimasto ad osservare per quasi un quarto d'ora una delle teche di vetro dello zoo del Bronx alla ricerca di insetti stecco tra i rami di un piccolo arbusto. Amy aveva atteso pazientemente rimanendo alle sue spalle, ridacchiando, finché non gli aveva indicato almeno sei o sette esemplari appollaiati sui rami a pochi centimetri dal suo naso, oltre il vetro spesso della teca. Da quel momento in poi, non gliene era sfuggito uno.
Ora, però, non si sentiva altrettanto rallegrato per aver individuato quella sagoma tra la vegetazione.
Cercando di fare meno rumore possibile, si rannicchiò dietro un piccolo cespuglio accanto alla carcassa continuando a fissare la sagoma, che vista da quella prospettiva risultava ancora più difficile da individuare. Ma lui non aveva più dubbi che ci fosse.
Improvvisamente, un grugnito risuonò dal capo opposto della radura e un attimo dopo l'ombra superò gli alberi e, con rapide falcate, raggiunse il centro della radura. Appena la luce illuminò la sagoma, Tom si sentì raggelare.
Il dinosauro era lungo almeno otto metri ed era bipede, con il tronco parallelo al terreno. Cinque file di noduli ossei si sviluppavano dalla base del collo e terminavano lungo la coda. Le zampe anteriori erano pressoché inesistenti. Lunghe meno di trenta centimetri, erano rivolte posteriormente e aderenti alla gabbia toracica e terminavano con quattro dita di piccole dimensioni prive di artigli.
Ma non era state le dimensioni ad impressionare Harris. Quello che lo aveva colpito era stato il cranio dell'animale. Anche da quella distanza, le due caratteristiche corna poste sopra gli occhi che contraddistinguevano una delle specie meglio conservate di predatori sudamericani erano chiaramente distinguibili.
Aveva sentito numerose teorie sull'utilizzo delle corna del Carnotaurus sastrei, secondo alcuni lo strumento ideale nelle lotte con altri esemplari, mentre altri studi suggerivamo come i maschi le sfruttassero per attirare le femmine durante il corteggiamento, ma tutti i paleontologi si trovavano d'accordo su un punto. Quella singolare struttura ossea gli conferiva un aspetto indubbiamente minaccioso.
Cercando di fare meno rumore possibile e mantenendo lo sguardo puntato sul carnotauro, lentamente si voltò e prese a strisciare per terra, aiutandosi con le mani. Appena la schiena urtò contro le costole della carcassa del sauropode prese a strisciare lungo la cassa toracica, aggirandola, senza distogliere neanche per un secondo l'attenzione dal dinosauro.
Quando sentì che dietro di lui mancava l'appoggio delle costole, capì di trovarsi sopra la coda del saltasauro. Sapendo che era l'ultima carta che gli rimaneva da giocare scattò di lato e si infilò nella cassa toracica, rannicchiandosi contro le costole.
L'odore era insopportabile, ma sapeva che era un compromesso più che giusto data la protezione che gli garantiva quella specie di gabbia di ossa.
Sulle costole, inoltre, i brandelli di carne e i tendini non ancora del tutto decomposti lo rendevano praticamente invisibile, ma gli impedivano anche di vedere cosa stesse succedendo all'esterno. Non aveva modo di vedere dove fosse il carnotauro, né tantomeno se Rivas e Franco fossero riusciti a mettersi in salvo.
Con il cuore che gli martellava nel petto, guardò verso il buco sopra la sua testa, dove ci sarebbe dovuto essere lo sterno, e inorridì.
Il carnotauro si trovava sopra di lui, la testa protesa sopra l'apertura, in attesa. Harris provò un ulteriore terrore nel vedere le sottili narici verticali che si allargavano e si contraevano rapidamente, e in un attimo capì di non avere nessuna possibilità. Di recente aveva consultato uno studio pubblicato qualche anno prima a proposito delle abilità sensorie dei teropodi, che rivelò come possedessero un olfatto elevato, un'abilità di percezione di suoni a bassa frequenza che avrebbe permesso di seguire gli spostamenti delle prede da lunghe distanze e una vista superiore a quella dei grandi rapaci.
Il carnotauro sopra di lui si sarebbe accorto della sua presenza in pochi secondi e lui non avrebbe potuto fare nulla per evitare di diventare una sua preda. Socchiuse gli occhi e abbassò lo sguardo concentrandosi sull'ombra distorta del muso del dinosauro proiettata sulle vertebre toraciche, vicino ai suoi piedi. Se non altro, non vedrò la morte in faccia.
All'improvviso, però, la sagoma scomparve da davanti ai suoi occhi e, un attimo dopo, udì dei passi pesanti allontanarsi alle proprie spalle.
Perplesso, il professore riaprì gli occhi e fissò le ossa che aveva davanti, illuminate dalla luce che proveniva dalle spaccature sul soffitto della caverna. L'ombra era sparita.
Tom, tuttavia, non si sentiva affatto sollevato. Se il carnotauro si fosse trovato ancora nei paraggi, non avrebbe avuto nessuna possibilità di uscire dalla gabbia toracica e sperare di raggiungere il camper senza attirare l'attenzione.
Non sarei mai dovuto venire! Si disse, pur sapendo che non la pensava davvero così. Dopo aver trattenuto il respiro per più di un minuto si concesse un momento per riprendere fiato, pentendosene un attimo dopo. In quei sessanta secondi si era completamente dimenticato del tanfo di carne in decomposizione che emanava la carcassa.
Sforzandosi di sopportare il tanfo, si mise carponi e strisciò fino a raggiungere le vertebre cervicali. In quel punto la cassa toracica si restringeva, diventando larga appena da permettergli di passare. Allungò la testa e sbirciò fuori, strizzando gli occhi per cogliere il minimo movimento. Ma non ce ne fu bisogno.
Il carnotauro si trovava a cinquanta metri di distanza, tra gli alberi, e stava risalendo un pendio erboso non molto ripido che si inoltrava nella foresta. Per quanto potesse, Tom cercò di risalirlo con lo sguardo, ma era difficile a causa dei grandi alberi che vi crescevano intorno. Cercò allora di immaginare dove potesse sbucare seguendone la pendenza e la leggera curvatura. Quando infine lo capì, si sentì come se gli fosse passato sopra un autotreno.
Era lo stesso sentiero che avevano percorso per raggiungere la radura. Oddio, Amy...
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Crono
Science FictionStoria vincitrice nella categoria SCIENCE FICTION ai Premi Wattys 2020 [In revisione, non su Wattpad] Nel nordovest dell'Argentina, in una cava di sabbia, un operaio viene brutalmente sbranato vivo da un animale misterioso, morendo nell'infermieria...