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La sala d'attesa del New York-Presbyterian Hospital era asettica e ben illuminata. Nell'aria fresca, quasi fredda, aleggiava un pungente odore di disinfettante per pavimenti, mentre all'esterno la neve vorticava nei coni di luce dei lampioni stradali creando un'ipnotico gioco di luci e ombre sulle pareti spoglie della stanza.
Sarah King, stremata e malconcia, sedeva su una delle sedie in plastica guardando distrattamente fuori dalla finestra la sessantottesima strada, imbiancata da una spanna di neve. Accanto a lei, nella fila di posti a sedere disposti lungo la parete, c'erano solo una minuta anziana addormentata con una cartella clinica di traverso sulle ginocchia e una giovane donna stanca morta, la testa appoggiata sulla spalla e gli occhi semiaperti.
Anche Sarah era sul punto di addormentarsi, ma si costringeva ormai da ore a restare vigile. Era arrivata al quinto caffè, ma ancora non ne avvertiva alcun effetto.
Alzò lentamente lo sguardo sull'orologio a parete e sospirò. Erano le tre in punto del mattino.
Sospirando, tornò a osservare il proprio riflesso sul vetro della finestra. Erano trascorse quasi undici ore da quando gli agenti di polizia l'avevano scortata dal Grand Central Terminal fino al New York-Pesbyterian, e la maggior parte di esse le aveva trascorse seduta in quella stanza ad aspettare.
John. Il suo nome parve rimbombare fra le quattro pareti verniciate di bianco.
"Il suo collega è vivo." le aveva detto il poliziotto, mentre saliva in auto. "Quando siamo giunti al laboratorio lo abbiamo trovato a terra con un foro di proiettile allo stomaco e una torsione innaturale del collo. Sembra si siano fratturate alcune vertebre cervicali, ma miracolosamente è sopravvissuto."
Le gambe Sarah per poco non avevano ceduto. Si era sentita in balia di un turbine di emozioni contrastanti, paura, smarrimento, sollievo. Per un momento, la sua mente si era svuotata da ogni altro pensiero. La ferita alla spalla, il cadavere dell'aguzzino, l'aggressione al laboratorio erano diventati di colpo ricordi lontani, indistinti.
"Siamo stati contattati da un passante che ha asserito di aver udito degli spari provenire dal piano terra dell'edificio. Se avesse chiamato un minuto più tardi, il suo amico sarebbe certamente morto."
Quell'ultima affermazione aveva galleggiato per un momento sospesa nell'abitacolo della volante mentre l'agente si immetteva in Park Avenue, diretto verso l'ospedale. Il resto del tragitto, Sarah lo ricordava appena. Era rimasta come in trance, trattenendo il fiato e affondando le unghie nei palmi delle mani. Non era riuscita a metabolizzare subito quella notizia.
Ricordava a stento le urla di John e i suoi passi mentre fuggiva dall'assassino nel corridoio del laboratorio prima che lo sparo esplodesse nella sua testa, echeggiando come il riverbero di un tuono in uno stanza vuoto. In quel momento si era sentita come se le fosse passato sopra un autotreno.
Per un attimo, la sua vita aveva perso importanza. Aveva smesso di avvertire il sangue che le colava lungo il braccio e il bruciore della scalfittura del proiettile sopra l'omero.
In quel momento, appoggiata con la schiena contro la porta del bagno, aveva capito che la sua vita stava per giungere al termine. Rassegnata, si era voltata e aveva fatto una decina di passi indietro, fino alla parete di fondo del locale, attendendo la morte.
Poi, in un angolo della sua mente, aveva sentito la sua voce. "Devi vivere."
Sarah aveva riaperto gli occhi, rimanendo immobile. Da dietro la porta non proveniva più alcun rumore. "Non smettere di lottare. Mai. Vivi per te. Vivi per tuo figlio."
Gli occhi le si erano riempiti di lacrime, ma le aveva ricacciate dentro subito. In un attimo, ogni cosa aveva cambiato prospettiva. Si era sentita animata da una sorta di forza interiore, un istinto viscerale di sopravvivenza. Senza perdere un secondo di tempo, si era fiondata nel primo cubicolo alla sua sinistra ed era sgusciata fuori dalla finestra, correndo verso il piccolo parcheggio cementato di fronte all'entrata del laboratorio. Aveva trovato le chiavi della sua Mercedes ed era salita a bordo, sfrecciando a tutta velocità verso Park Avenue.
Per un istante, aveva intravisto il viso dell'assassino attraverso il vetro della finestra del bagno. Non avrebbe mai scordato quello sguardo, e nemmeno l'immagine del suo cadavere tumefatto nel piazzale antistante il Grand Central Terminal.
La ferita alla spalla riprese a pulsare, richiamandola alla realtà. Istintivamente, si portò una mano sulla spalla sinistra, dove le dita incontrarono i rilievi di una decina di punti dove il proiettile l'aveva scalfita. Si era quasi dimenticata di essere stata visitata appena giunta in ospedale, ormai più di undici ore prima.
Una porta in fondo al corridoio si aprì, e un'infermiera grassoccia, con i capelli neri raccolti in una coda di cavallo, corse verso la sala d'attesa tenendo in mano una cartella.
Sarah avvertì il battito accelerare nel momento in cui si rese conto che gli occhi della donna erano puntati su di lei. L'infermiera fermò al centro della sala, attendendo qualche secondo per riprendere fiato prima di parlare. «Signora King?»
Sarah si alzò di scatto, lasciando cadere sulla sedia la giacca che gli agenti avevano recuperato dalla Mercedes che aveva lasciato nella corsia laterale della Fifth Avenue. Il suo cuore adesso batteva all'impazzata.
«L'operazione è terminata senza complicazioni, ora il suo amico è stabile. Sta riposando in fondo al corridoio. Probabilmente non si sveglierà prima di qualche ora o di un paio di giorni, è ancora sotto anestesia e i tempi di recupero dopo interventi di questo tipo sono difficili da stabilire, ma siamo fiduciosi.»
Le parole dell'infermiera riempirono Sarah di un'emozione profonda, di un senso di sollievo indescrivibile, unico, ma si asciugò in fretta gli occhi. Era troppo presto, non poteva permettersi di illudersi. Sapeva bene che spesso le complicazioni potevano manifestarsi anche diverse ore dopo l'intervento.
«Se vuole seguirmi» riprese la donna, rivolgendole un sorriso pieno di compassione, «la porto da lui.»
King annuì, uscendo assieme a lei dalla sala d'attesa e percorrendo in silenzio il corridoio illuminato al neon. Per una frazione di secondo, le parve quasi di essere tornata al laboratorio, con l'aguzzino che la inseguiva con la pistola in pugno, ma non appena si fermarono di fronte alla porta della stanza, la sua mente si svuotò.
L'infermiera girò la maniglia e spinse la porta verso l'interno, facendole cenno col capo di entrare. Sarah avanzò nella stanza con gambe tremanti, incerta su cosa aspettarsi.
La stanza era piccola e immersa nel buio, ma l'infermiera accese immediatamente la luce subito dopo aver richiuso la porta.
Era una camera singola, quasi claustrofobica, con una barella vuota e il letto di John circondato da macchinari, dietro una testa divisoria. L'unico rumore nella stanza era il debole ping dell'elettrocardiografo.
Sarah aggirò la tenda e si avvicinò al letto, sopraffatta dalle emozioni. John era profondamente addormentato, supino, le braccia distese ai lato del corpo e i cavi degli elettrodi dei macchinari che spuntavano da sotto il camice. Non le sembrava vero.
«Sei vivo.» disse debolmente, sedendosi su uno sgabello a lato del letto e prendendogli la mano. Avvertì il battito del suo cuore nel polso e il calore del suo corpo mentre intrecciava le sue dita con le sue. Sarah sapeva purtroppo che anche se la frattura che aveva riportato al collo a seguito della torsione dell'assassino non si era rivelata mortale, avrebbe con molto probabilmente comportato una paralisi del torso e degli arti, ma preferì accantonare quel pensiero per il momento e concentrarsi sul presente.
Lentamente, si sollevò in piedi e gli diede un bacio sulla guancia, passandogli una mano tra i capelli brizzolati. Perfino ora faceva fatica a capire se stesse sognando o se fosse sveglia.
Poi, lentamente, appoggiò la testa sul bordo del letto e si lasciò cullare dal ritmico ping del monitor e dai rumori della strada smorzati dalle pareti della stanza.

Quando Sarah si svegliò, la luce del giorno aveva cominciato a fare capolino da sopra il profili di grattacieli di Manhattan, tingendo di oro e di rosa la neve che ricopriva gli alberi e i marciapiedi. Ancora assonnata, drizzò la schiena e si alzò in piedi, sistemandosi ciuffi di capelli ribelli dietro l'orecchio come meglio poté. Mentre tornava a voltarsi verso il letto, si accorse che anche John aveva aperto gli occhi. Le stava sorridendo.
«John!» esclamò, inginocchiandosi accanto al letto e prendendogli la mano. Le sue dita rimasero immobili, ma lui non parve affatto sorpreso. Anzi, come se le avesse letto nel pensiero le disse. «Sei viva. Ho avuto paura... poi tutto è diventato nero. Ho pensato che sarei morto, e invece eccomi qui.» Abbassò lo sguardo sul proprio corpo. «Non mi importa se non potrò più camminare. Sapere che stai bene è la cosa più importante.»
Sarah, commossa, appoggiò la testa sul suo petto e, per la prima volta in quella giornata, lasciò libero sfogo alle lacrime. Ma non piangeva per tristezza.
Piangeva di gioia.

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