Capitolo 37

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Era il mese d'Agosto e andai a trascorrere quindici giorni delle mie vacanze in una bellissima villa di Giovinazzo, paesino pugliese.
Il proprietario era un mio zio, un rinomato medico rispettato e rimirato da tutti i suoi numerosi pazienti.
Le singolari virtù, riservate all'arte dell'operare, le apprese ben presto dalla sua ostetrica madre: zia Angelina.
Le apprese con tanto entusiasmo e determinazione che divenne in pochissimo tempo un eccellente e affermato ginecologo.
Austero e autoritario nei suoi convincenti principi, educò i suoi figli attenendosi a regole rigorosamente precise, tuttavia democratiche.
Nonostante l'essere insigne e un carattere imponente, il suo animo, tendenzialmente indulgente, si addolciva con l'improvviso levarsi di una splendente cometa: sua figlia Marcella.
Era l'ultima nata dei suoi quattro figli.
Era davvero una bellissima bambina.
Lunghi capelli folti e dorati; occhi verdi, intensi e brillanti; denti bianchissimi in un sorriso smagliante.
Per i suoi modi blandi, da vera esperta adulatrice, era amata e vezzeggiata da tutti.
I genitori, i fratelli, i parenti e gli amici, le permettevano e l'accontentavano in tutto.
Era viziata e vezzosa.
Non aveva compiuto ancora otto anni che sapeva già ballare, danzare, recitare, suonare al pianoforte e nuotare in stili diversi.
Ricordo quanto fosse incredibile la sua libera ostentazione in piscina.
In prossimità del margine di un elevato trampolino, s'accingeva a esordire in un magnifico tuffo.
Con slancio leggero s'immergeva nelle acque cristalline della vasca e poi, tutto d'un tratto, riemergeva splendida e serena, come un'incantevole "sirena" di fantastiche leggende.
Intanto io derelitta, ai bordi della medesima piscina, aggrappata a una larga ciambella salvagente, non potevo fare altro che osservarla affascinata.
Io non sapevo nuotare.
Il suo sfoggio di danze e balletti, accompagnato da gradite sintonie, avveniva generalmente durante le visite in villa di parenti e amici.
Attraverso movenze armoniose e delicate, dava origine al suo prevedibile encomio.
Come una grande interprete sapeva rendere realistica ogni sua rappresentazione.
Toccante ammirarla nella "morte del cigno".
Mentre io, costante spettatrice, rannicchiata in un angolo, non facevo altro che osservarla affascinata.
Io non sapevo ballare.
Potevo semmai interpretare la figura passiva del "brutto anatroccolo", il piccolo "Calimero" escluso da tutto e da tutti soltanto perché era nato misero e nero.
In quell'ambiente così diverso e distante dal mio, mi sentivo davvero come lo sventurato e sconsolato Calimero.
Cosa ci faceva una come me, figlia di un semplice venditore ambulante, nel lussuoso mondo di illustri dottori, infallibili avvocati, potenti dirigenti e affermati imprenditori.

L'Illusione di un padreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora