Capitolo 16

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L'ingresso era un ampio locale ben illuminato, arredato semplicemente da accessori di poco valore, tuttavia funzionali o quasi.
Un tavolino pieghevole in legno sul quale Luciana ed io potevamo scrivere e disegnare; un mobiletto sul quale era appoggiato un antiquato televisore in bianco e nero programmato solo su due canali, RAI 1 e RAI 2; un piccolo comò in legno di noce, scuro, sul quale era posta una lampada in ferro, utile al buio per leggere o cucire; una brutta radiolina sintonizzata su un'unica stazione: radio Terlizzi; un antico specchio ovale, nel quale mi piaceva spesso rimirarmi; un attaccapanni, un portaombrelli, un quadro figurante i miei bisnonni e un classico orologio a pendolo che tutti i giorni, puntualmente, veniva ricaricato.
Infine sedie, moltissime sedie: pratiche, comode, pieghevoli, in legno, in acciaio, in paglia, imbottite, rivestite e foderate.
Numerose sedie perché numerose erano le persone, i parenti e le comari che giornalmente venivano a trovare mia zia.
Di fronte all'ingresso c'era la stanza da letto.
Era ammobiliata da un comune cassettone da notte, così chiamato perché serviva a contenere il corredo della sposa, e due letti separati tra loro da un tendina di lino bianco.
In questa stanza dormivano zia Angelina e Luciana che, come ogni mattina, era solita lamentarsi per aver passato una notte insonne, sia per il russare di zia e sia per il rumoroso oscillare del pendolo.
A fianco dell'ingresso c'era la cucina e un bagnetto provvisto soltanto di vaso e lavabo.
Mia nonna per lavarci doveva riempire d'acqua una larga bacinella ad uso vaschetta.
La cucina era composta da lavello, piano di cottura e frigorifero.
Ospitava un tavolo da pranzo con rispettive sedie e una grande dispensa per stoviglie e provviste.
Ricordo che era abitudine caparbia di mia zia tener sempre in frigorifero bottigliette di vetro colme d'acqua riempite dal rubinetto, cosicché, ogni volta che aveva sete, poteva dissetarsi beatamente; e ricordo che era abitudine caparbia, mia e di mia sorella, aprire il frigorifero, prendere queste bottigliette, bere e riporle vuote al loro posto, facendo così arrabbiare, come sempre, mia zia.
Da una parete della cucina pendeva un'insolita catena, che il tempo aveva logorato negli anni.
Tirandola giù, la parete simulata s'abbassava improvvisamente e dietro, come per magia, compariva una stretta e consumata scala.
Salendo lentamente e con molta cautela i suoi gradini, giungevi ad un'unica stanza.
Era un ampio vano all'interno del quale si diffondeva una strana e misteriosa atmosfera, qualcosa di soprannaturale, forse un fantasma.
In questa camera dormivamo nonna, io e... quella strana presenza.
Il locale era composto da un antico ed enorme letto matrimoniale, di quello che si vedono nei film di vampiri; due bassi comodini ai lati del letto; un classico comò con specchiera; un'orrida, vecchia, mostruosa cassapanca, meticolosamente chiusa a chiave, nella quale Luciana ed io avevamo sempre creduto che all'interno ci fossero custodite le spoglie del secondo marito di zia Angelina.
Avvertivamo di frequente una presenza, forse era il suo spirito che girava per la stanza.
Avevamo paura, così tanta strizza, che scongiuravamo nonna a rimanere con noi per non restare sole.
Era una stanza buia e tenebrosa, tanto che anche il sole timoroso impediva ai suoi raggi di filtrare attraverso i vetri di una piccola finestra.
Solo di sera, al pervenire della notte, uno spiraglio di luce rischiariva, come per incanto, tutto il locale.
Ma si trattava di luce fittizia, artificiosa, un chiarore distaccato, che di caloroso, come i raggi solari, non possedeva nulla.
Erano luci di lampioni, ordinatamente posti lungo il viale, e fari abbaglianti di automobili di passaggio, che riflessi sulle pareti assumevano forme e figure spettacolari.
Strani giochi di luce dagli effetti fantastici, che io stessa creavo prima di addormentarmi.
Strani giochi fantastici che di solito creavo quando assistevo meravigliata alla metamorfosi di branchi di nuvole viaggianti in un cielo limpido e sereno.
Fantasticare era senz'altro il passatempo migliore per rendere più vivaci situazioni lugubri e noiose.
Ed io mi servivo di un'arguta immaginazione proprio per dare un tocco di vivacità a un paesaggio così triste e noioso che Terlizzi si presentava ai miei occhi fanciulleschi.

L'Illusione di un padreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora