Capitolo 113

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Vagavo per casa come un'anima in pena. Come un misero e disperato pesciolino fuori dall'acqua.
Volevo ritornarmene a casa al più presto. Che cosa avevo fatto di male per meritarmi tutte quelle angustie angherie?
Perché doveva trattarmi regolarmente in quel modo?
Non ne potevo davvero più.
Non riuscivo più a sopportare lei, le sue maldicenze, le sue mordaci ironie e pizzicanti provocazioni.
Se solo avessi potuto farlo, sarei fuggita all'istante.
In un battibaleno.
Ma dato che tale eventualità non era possibile, l'unica cosa che potevo fare era "stringere forte i denti" e rassegnarmi.
Arrendermi alle sue assidue, controverse e grette meschinità era certamente frustrante, ma purtroppo del tutto inevitabile.

Ogni volta che ci penso è una dolente ferita al cuore. Litorale Santa Lucia.
Ci si recava al mare quasi tutti i giorni.
Il caldo che albergava in casa era deprimente e insopportabile.
Asfissiante esattamente come Agata.
Scarseggiava pure di scorrente acqua potabile.
Farsi coccolare dalle fresche e spumeggianti onde del mare era una sensazione solennemente paradisiaca.
Una bracciata di vita rivitalizzante, rigenerante e confortevole.
Ma per mia sventurata sfortuna si trattava soltanto di trascendentale parvenza.
Non c'era nulla di esotico e di cristallino in quelle torbide acque del lungomare torrese. Solo una vasta distesa di variegati rifiuti. Potevi trovarci di tutto.
Era come avventurarsi tra chioschi ben provvisti di un mercato rionale.
Bastava munirsi di buste e sacchettini che potevi addirittura farci gratuitamente spesa.
Nonostante il rischio di un presunto "colera", a me non dispiaceva affatto immergermi appagata tra quei flutti nauseabondi. D'altronde, nuotare era l'unico momento di svago che Agata mi permetteva ancora di fare.
Trascorsi, difatti, la maggiorparte delle mie lunghe giornate estive a fare da babysitter al mio grazioso fratellino.
Al centro del mondo, in quel periodo, esisteva soltanto lui.
Agata mi aveva praticamente obbligata a prestare attenzione esclusivamente a suo figlio.
A lui e a nessun altro.
Non ammetteva, da parte mia, nessuna irrimediabile distrazione.
In caso contrario sarebbero stati guai seri e senza convenevoli me l'avrebbe fatta pagare duramente.
Se il mio compito principale era quello di dedicarmi unicamente alle richieste di mio fratello, sinceramente a me non generava in assoluto alcun problema.
Ero abituata a fargli da mamma.
Quello che invece non concepivo affatto, e non riuscivo nemmeno a farmene una plausibile ragione, era perché Agata mi impediva di divertirmi e giocare anche con gli altri bambini.
Non capivo perché Agata non voleva proprio vedermi giocare.
E soprattutto perché Agata non amava vedermi, almeno una volta, un tantino felice. Rimembro un episodio molto sgradevole e nefando accaduto in quel periodo.
Mio fratello ed io eravamo seduti sulla riva del mare a scavare buche e a costruire castelli di sabbia.
Intanto Agata e le sue nipotine giocavano a lanciarsi la palla correndo e saltellando su minuscoli granellini di rena argentata.
Ad un tratto il pallone rotolò direttamente verso di me.
D'istinto mi alzai per accingermi a prendere la palla per poi subito rilanciarla a loro.
Non avrei fatto nient'altro che questo.
Ma ecco sopraggiungere nell'immediato la voce stridula e arrogante di Agata.
« stai ferma lì! Non permetterti di toccare la palla. Non stai giocando con noi. Che cosa ti ho detto? Di badare a tuo fratello. Quindi siediti e cerca di preoccuparti solamente di lui. Hai capito? »
Ebbene...
Agata non si smentiva mai.
Ma d'altronde che cosa potevo fare...
Questa era Agata.

L'Illusione di un padreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora