Non mi ricordavo bene quel giorno come veramente credevo ed era fottutamente strano perché mi sentii sprofondare sempre di più, in cerca di qualcosa o qualcuno che mi tirasse su e mi facesse respirare.
Entrai in ospedale correndo come una forsennata e chiesi a diverse infermiere una notizia, nessuna voleva dirmelo, nessuna mi avrebbe aiutata così iniziai a girare per l'ospedale tentando di indovinare.
Poi finalmente arrivai, su quella porta così bianca e in quel corridoio così vuoto che sapeva di disinfettanti e alcool vidi un nome. Alzai gli occhi al cielo nel tentativo di trattenere le lacrime e corsi incontro all'unica persona che si era degnata di avvertirmi. Nate mi stava nuovamente abbracciando, cercando di rubare una piccola quantità del mio dolore per conquistarla.
«Sta bene Dav.» scossi la testa.
«Non se è in questo fottutissimo ospedale.» ringhiai infuriata.
«Vieni, sediamoci nella sala d'attesa.» lo guardai un secondo negli occhi e lessi immediatamente anche il suo dolore, faceva finta di essere il più forte della situazione ma sapevo che anche solo una brutta ma insignificante notizia lo avrebbe messo al tappeto.«Non c'è nulla da fare?» mi sedetti in una poltroncina.
«No Dav, dobbiamo solo aspettare. I medici non mi hanno fatto entrare, non sono un parente stretto.» accavallai le gambe e ci appoggiai le mani giunte.
«Sanno la sua situazione familiare?» lui annuì.«Rilassati Dav, sono convinto che ci faranno entrare prima o poi.» passai quella domenica delle vacanze di Natale in ospedale, ore dopo ore ero ancora lì nel tentativo di accaparrarmi qualche utile informazione. Nate era rimasto lì con me, ma più che essere con me sembrava fosse su un altro pianeta.
Mi torturavo le pellicine delle unghie, camminavo avanti e indietro nella piccola sala d'attesa e facevo giri su giri intorno a quel corridoio deserto. Io e Nate eravamo due tra i pochi che si aggiravano e almeno ebbi il tempo per sfogarmi, appoggiai la testa al muro e scivolai piano fino a toccare il pavimento.
Quel giorno soffrii, soffrii perché nonostante la notizia ricevuta quella mattina presto attraverso un messaggio non potevo entrare in quella dannata stanza e vedere di persona come stesse. Mi sentivo inutile, impotente e per quanto non ci conoscessimo da tanto sentivo in quel momento di star veramente soffrendo e per la prima volta lo confessai a qualcuno quando Nate provò a tirarmi su il morale.
«Perché non andiamo a prenderci un gelato Dav? Qui vicino, tanto non ci fanno entrare.» rimasi a guardare il muro davanti a me senza rispondere. «Dai Dav non puoi crogiolarti in questo ospedale tutto il giorno, starà meglio e tu potrai entrare in quella stanza.» scossi la testa e sorrisi lievemente.
«Sai, è buffa la vita o forse sono solo io ad essere tremendamente buffa.» lo guardai un secondo in volto per poi distogliere lo sguardo.«Cosa stai dicendo Dav? Non capisco.» scrollai le spalle.
«Non ho mai esternato i miei sentimenti, non ho mai fatto nulla per far cambiare alla cittadina l'opininione che aveva di me, non sono mai stata in grado di farmi capire fino in fondo da nessuno.» mi alzai dal pavimento.
«Non ti seguo.» lo guardai, lo abbracciai e poi al suo orecchio sussurrai: «Ti ho perdonato, per tutte quelle brutte parole e per tutto. Io Nate ti perdono e ti voglio bene, più di quanto tu possa immaginare.»Se inizialmente era freddo e distaccato quell'abbraccio poi diventò sentito e le sue braccia mi circondarono rapidamente il busto per tenermi più vicina, appoggiai il mento sull'incavo del suo collo e una mano tra i suoi capelli. «Mi sei mancato Nate.» lui mi rispose lentamente, ma poi fummo interrotti da un'infermiera.
Era alta e giovane, indossava un camice bianco e legava i capelli in uno chignon disordinato.
«Scusate se disturbo ma, potete entrare in camera. Il paziente si è svegliato.» mi liberai dalla presa e appoggiai la schiena al muro, cercando di fingere un sorriso di ringraziamento a quella ragazza che se ne andò furtivamente.
«Vai Nate, vai tu.» entrai nella piccola sala d'attesa e aprii la finestra, respirai per minuti l'aria fresca di Solvang e poi la richiusi quando il mio migliore amico uscì dalla camera.
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UNhappy
JugendliteraturUn passato da dimenticare, un senso di mistero che si cela dietro quegli occhi sempre truccati e una lingua biforcuta hanno sempre caratterizzato Davina Foster. Tutti la conoscono, ma nessuno lo fa veramente. Un animo tormentato e oscuro, una ragazz...