146. Daniel

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Tengo gli occhi incollati alla porta, nell'attimo che precede la sua definitiva chiusura. Cerco di catturare ogni suo dettaglio, prima che i miei occhi la perdano di vista. Poi la porta si chiude. Ed io crollo a terra, sconfitto dalla mia stessa forza che da ieri sera ho esercitato per restare in piedi. Mi rialzo solo per poggiare la mano su quella maniglia, su cui lei ha poggiato le sue pochi attimi prima.

Se apro la porta adesso posso ancora raggiungerla. Posso darle un ultimo abbraccio.

Perché? Perché è dovuto succedere un'altra volta?

Sento la ragione e la lucidità abbandonarmi molto velocemente.

Ho voglia di bere. Maledizione.

Mi strofino gli occhi zuppi di lacrime. Mi bruciano. Da quanto tempo non piango così?

La amo. Certo che la amo. Fottutamente, con ogni mio muscolo. Fin dentro le ossa. Ma non posso rischiare di farle del male.

Ha bisogno di aiuto. È depressa. è giovane. Troppo giovane. Se le resto a fianco potrebbe finire come mia moglie.

Dio.

Cerco di respirare il più profondamente possibile ma l'aria sembra non volermi entrare nei polmoni.

Dannazione Daniel, calmati.

Non ci riesco.

All'improvviso mi dirigo in camera, spinto da qualcosa dentro, più forte di me. Apro l'anta dell'armadio e sposto i vestiti ammucchiati lì davanti.

Il dipinto.

Un'ondata prepotente di lacrime mi inonda nuovamente il viso mentre tiro fuori la tela che ho finito la settimana scorsa.

È meraviglioso. Perché è la sua raffigurazione a renderlo tale. Lei ha reso la mia Arte degna di essere dipinta. Osservo la sagoma del suo corpo, con i lunghi capelli che volano al vento, seduta di fronte al mare. E il cielo. La notte stellata. Come potevo non posizionare il suo corpo sotto il cielo così come lo aveva dipinto Van Gogh? Il suo artista preferito. E adesso la capisco. Chi meglio di lui ha saputo dare forme e colori al caos della mente, all'inquietudine?

Alla depressione.

Resto così, seduto sul pavimento della mia camera, con il dipinto di lei in mano. Piango ancora e ancora.

Non posso restarti accanto Cloe, perdonami. Un giorno mi ringrazierai.

Per egoismo potrei farlo. Potrei fingere di sapere come aiutarla, di guarire la sua anima ferita e sofferente. Potrei semplicemente starle vicino e amarla fino alla morte.

Ma non ci riesco. Non posso farlo.

E se la mia vicinanza peggiorasse tutto? E se dovessimo lasciarci più avanti, quando sarà poi troppo tardi?

Farà dannatamente male lo stesso, adesso. Ma devo pensare al male necessario. Al male minore.

Devo proteggerla da me.

La devo salvare.

Mi devo allontanare lentamente da lei. Un passo alla volta.

«Dio, ti prego, aiutami», piango e sussurro allo stesso tempo. Il mio pianto rimbomba piano tra le pareti di questa casa vuota. 

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