11 - Tess - When Night Falls

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È meglio che se ne sia andato

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È meglio che se ne sia andato. È senza dubbio l'unica soluzione possibile. Glenn mi sta tenendo a distanza. Facciamo la nostra collaudata sceneggiata della coppia che funziona di fronte agli altri. Ogni tanto gli sorrido e ogni tanto lui ricambia . Ma è il sorriso del vecchio Glenn, dell'uomo con la mania del controllo. Lo noto perché raddrizza i gemelli una volta di troppo, perché liscia la trama già perfettamente inamidata della sua camicia bianca.

<<Cosa succede?>>

Gli domando a bruciapelo, l'ennesima volta che sistema la seggiola rivestita di bianco accanto al patio.

Il mondo ti sembra piuttosto disordinato stasera, vero Glenn? Lascia perdere. Non vale la pena di riallinearlo.

Metto una mano sulla sua giacca e lui mi restituisce il suo sguardo chiaro. Così chiaro che mi è sempre sembrata una contraddizione che fosse tanto poco limpido.

<<Niente, Tess. E tu? Sei stanca?>>

Scuoto il capo. E sembra rilassarsi.

<<Non è cambiato...>>

Dice velocemente.

<<No.>>

Rispondo in maniera meccanica. Non ho voglia di farlo, di ripensare all'Arthur di prima. Ma ogni tanto mi succede di non avere molto controllo sui miei pensieri. E lo rivedo intento a fissarmi le calze a casa sua, e sento addosso il suo desiderio, una corda perennemente tesa tra noi. Un manifesto, che è sempre rimasto lì, anche stasera, nonostante tutto.

Mi allontana dalle persone e ci addentriamo in pezzo defilato di giardino.

<<Ti va di andare in camera? Ho bisogno di parlarti.>>

Me lo domanda con un'incertezza strana, che gli appartiene molto poco. Sto insegnando a Glenn a mollare il timone, ogni tanto. E mi sorprende quanto in fretta sia in grado di apprendere. È come un foglio poroso su cui venga appoggiata una penna a inchiostro. È questo l'effetto che sento di avere su di lui, e devo ammettere che dà un certo perverso potere, giocare con gli altri, essere quella che muove e non più quella che viene mossa.

Posso vedere la macchia nera, allargarsi dentro di lui.

<<Certo. Vado a prendere un po' d'acqua e ti raggiungo.>>

<<Non preoccuparti, Tess. Ci penso io. Aspettami di sopra.>>

Annuisco e ci separiamo.

Vedo che si avvicina al tavolo dei drink e un cameriere dall'altra parte gli passa un bicchiere d'acqua. Glenn è un uomo tutto d'un pezzo, si muove sempre come se gli altri lo osservassero. Gloria Baumgartner dà un'occhiata nella mia direzione e poi si avvicina al figlio. Non mi sopporta, è ovvio. Ma c'era anche lei quella sera, mi ha aiutata come avrebbe fatto con un animale ferito in cui fosse fortuitamente inciampata. L'ha fatto perché non aveva scelta.

Sono così simili, alti, biondi, bellissimi, perfetti e fragilissimi. Danno l'impressione di essere come certe figurine di cristallo di cui già si intuisce l'inevitabile sorte. Gloria, vestita con un tailleur dalla linea bianca e semplice sembra essere rimasta congelata nel tempo, cristallizzata ai suoi venticinque anni. L'espressione e i modi sono ancora quelli di una giovane donna. Glenn è sempre così sorpreso quando la madre mostra un qualche interesse per lui, so che lo è anche adesso. So che le sue attenzioni lo confondono, le sue attenzioni che a quanto pare sono iniziate da quando sono arrivata io.

È molto malata Gloria, anche se i dottori non riescono a capire di cosa si tratti, il cuore forse. Ad ogni modo si manifesta come qualcosa che la sta consumando lentamente. Ma non ci sono metastasi, non ci sono cellule sospette, non ci sono segni. Anche la malattia si nasconde di fronte a loro, si pone il problema di rovinare quella bellezza statica. Se ne sta andando con grazia. Non riesco ad odiarla, anche se lei mi tratta con molta sufficienza. Mi osserva mentre parla col figlio, c'è qualcosa di me che la terrorizza, anche se non capisco esattamente di cosa si tratti. Glenn mi ha detto che non è solita partecipare a questo tipo di serate, che per anni se n'è rimasta rintanata in camera sua, con la scusa dell'emicrania. Ma da quando sono qui, la vediamo quasi tutti i giorni. Una presenza silenziosa, opprimente. È identica a lui. Non posso non vederlo. È come potrebbe diventare Glenn. A meno che. A meno che non allarghi quella macchia nera di inchiostro. Ma voglio davvero trascinarlo in tutto questo dolore? Non è meglio osservarlo da lontano, mentre sembra un angelo incorrotto? Lasciarlo ancora vivere a quella distanza? Come se lui fosse un pesce e noi tutti fossimo dall'altra parte del vetro?

Noi tutti.

Io e Arthur. Arthur è davvero tutto l'opposto, Arthur lo sento, in maniera insopportabile, dappertutto. È semplicemente come se fosse una parte biologica, una mano, un piede. È sempre rimasto qui, come questo mio fastidioso corpo. Così tanto che ci ho fatto l'abitudine. Si è insediato in profondità, mi è entrato dentro con la stessa invadenza di un virus.

Attraverso il giardino senza curarmi dei tacchi che affondano nel terreno, non mi interessa più. Le scarpe sono durate il tempo che dovevano durare, domani ne avrò un altro paio, se lo desidero. Posso avere tutto quello che voglio in questo mondo dorato. No, non tutto, quasi tutto. Non posso più tornare indietro, è l'unica cosa che non posso fare.

Spalancando la porta della camera, mi tolgo il vestito e lo sostituisco con una leggera sottoveste azzurra, Glenn non c'è ancora, ma è già stato qui, perché vedo sul bel comodino della sua camera da ragazzo, la camera in cui insiste a voler dormire quasi tutte le notti, un piccolo sottobicchiere, con le iniziali V.W. Il padre di Glenn, il ministro Vince Welsh, con cui ho parlato molto poco, ma abbastanza da capire che non ne avrei sentito il rammarico. Guardo le bollicine scoppiare piano piano sulla superficie.

C'è un'enorme finestra che dà sul giardino nella camera ordinata di Glenn. Ma stasera sono rapita dalla vista di quelle bollicine che scoppiano. Una, due, tre bollicine. Arthur che ha in mano i vetri. Altre bollicine. Il tempo che torna indietro.

La porta della camera di Gloria sbatte, e una piccola luce inonda il corridoio fuori dalla stanza. Sento a malapena i passi, Glenn si affaccia sulla porta, esausto.

<<Eccomi, sono qui.>>

Mi dice. Ma è troppo tardi. È di nuovo sera. È di nuovo il quindici giugno di tre anni fa.

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