10. Il mio nome è Jem

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Sedici luglio. Primo allenamento. Caldo, sudore, fatica.

E una gigantografia di Claudio sulla porta dello spogliatoio.

Era una foto che Claudio conosceva molto bene.  Era stata presa dal suo Instagram, un ritratto di se stesso a mezzo busto inquadrato leggermente dal basso mentre faceva il dito medio in camera con uno sguardo truce.

I suoi capelli erano tinti di un rosa acceso e brillante.

Qualcuno aveva disegnato dei cazzetti intorno al suo viso con un Uniposca rosa, e c'era anche una scritta in stampatello maiuscolo: BENVENUTA JEM ❤︎ !!!

Claudio si guardò intorno per cercare di identificare il colpevole o i colpevoli dello scherzo. Conosceva appena un paio di nomi, e ancora confondeva molte delle loro facce: era solo il secondo giorno che li vedeva. Il giorno prima, alle visite mediche preliminari, nessuno gli aveva rivolto la parola, ma Claudio non se n'era crucciato troppo, era ancora stanco e accaldato per il viaggio: cinque ore di autostrada senza aria condizionata a bordo della sua inossidabile R4.

Claudio si stava ancora chiedendo perché avesse deciso di andare a Bologna in Renault: sia sua madre che suo padre che sua nonna gli avevano fatto notare l'impraticità della cosa. Claudio si era trovato d'accordo. E per giunta aveva sempre odiato quella macchina.

Ma aveva pensato che gli sarebbe stato utile un mezzo per spostarsi. E quando era entrato in garage e aveva visto il catorcio rosso (il catorcio che Tiziano adorava), qualcosa di strano era scattato nel suo cervello e aveva provato l'irresistibile e quasi inspiegabile desiderio di portarselo dietro.

Pentendosene, ovviamente, dopo la prima mezz'ora di viaggio sotto il cocente sole di luglio.

Claudio puntò i pugni ai fianchi e ammirò la propria foto. «Sono stato eletto uomo immagine della squadra?» chiese infine ai suoi nuovi compagni.

Ci fu qualche risatina alla battuta, ma per lo più i ragazzi lo fissarono con l'aria di disapprovare totalmente le sue scelte tricologiche e la sua stessa presenza all'interno dello spogliatoio. Claudio fece spallucce e si diresse all'armadietto in cui aveva riposto le sue cose.

Venne preceduto da una mano, che lo aprì, ne afferrò il contenuto e lo gettò a terra.

«Questo è l'armadietto di Bojan, e non si tocca» disse in tono ostile il proprietario della mano.

Claudio lo riconobbe, uno dei pochi di cui sapeva il nome. Era Raul Mangiante, l'attaccante titolare, quello a cui Claudio avrebbe fatto da riserva. Un uomo brutto, dall'espressione stolida: occhi spioventi, naso schiacciato e labbra molli, perennemente umide e socchiuse. La cosa più sorprendente era la sua stazza, una stazza che Claudio non avrebbe mai pensato di poter vedere addosso a un calciatore professionista: la pancia sporgente, le cosce adese e le mammelle grassocce dicevano che aveva addosso almeno una ventina di chili di troppo. Nonostante quei chili era estremamente agile, Claudio se n'era stupito, durante l'allenamento. Mangiante de nome e de fatto, aveva pensato Claudio. Chissà in che categoria potrebbe giocare, se magnasse de meno...

«Non c'è scritto nessun nome, sopra. Pensavo fosse libero» ribatté Claudio.

«Non è libero.» Mangiante sembrava voler uccidere Claudio con lo sguardo.

Claudio notò, dietro Raul, un ragazzo che stava osservando lo scambio con aria beffarda: i capelli folti e nerissimi formavano una punta sulla fronte, aveva spalle larghe, collo corto, e due occhi scuri senza espressione. Inizialmente non disse nulla, ma quando si accorse che Claudio lo stava guardando gli fece un sorrisetto che Claudio non riuscì a interpretare: malizioso o amichevole? Poi, senza tanti complimenti, allungò il braccio, si fece largo spostando Raul alla sua destra, e si presentò: «Non farci caso a Raul, è un coglione. Io sono Serafin. Serafin Konjuh. Mi chiamano tutti Sera.»

L'ultimo evocatore - [Desiderio, volume 2]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora