98. Meno di ventiquattr'ore

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12 gennaio 

Otto giorni.

Erano passati otto giorni.

Otto giorni di reclusione.

Otto giorni di preoccupazione e tormento interiore senza sapere dove fosse Marco. Senza sapere se Artemide l'avesse catturato o se Margherita fosse riuscita a portarlo in salvo. Se fosse al sicuro. Se fosse in pericolo.

Otto giorni senza sapere null'altro di Claudio e di Ares Vinci e della setta di psicopatici.

Artemide Vinci teneva Simone prigioniero. Esattamente come aveva fatto suo fratello. Ma era, per lo meno, una carceriera meno crudele di lui.

Aveva rinchiuso Simone in una camera da letto. Una normale stanza di una normale casa. Spaziosa. Con una finestra, da cui poteva vedere un decente panorama del lago di Albano («ma chi guarda dentro non vede nulla, ti avviso»). Dei romanzi per passare il tempo leggendo. Un televisore con Sky (tutti i pacchetti) e digitale terrestre. Dei vestiti di ricambio sempre puliti (per lo più tute del Felsina: ne indossava una in quel momento).

Aveva cibo e acqua a disposizione, ogni qual volta lo desiderava: gli bastava suonare un campanello e arrivava una specie di maggiordomo senza nome.

Aveva accesso a un piccolo bagno, dove poteva lavarsi ed espletare i suoi bisogni fisici.

Aveva tutto.

Ma era in carcere.

I suoi genitori non lo sapevano, naturalmente. La Vinci aveva ideato un alibi: un ritiro in una clinica per disintossicarsi dall'alcol. Era una scusa che la donna aveva raccontato sia ai genitori, sia al Modena. In questo modo aveva giustificato l'assenza di comunicazioni telefoniche da parte di Simone: era normale che le persone in rehab non potessero comunicare con l'esterno, nei primi tempi del ricovero.

«I miei non ci crederanno mai! Il dottore all'ospedale aveva detto a mia madre che non avevo alcol nel sangue, quando mi hanno ricoverato» aveva osservato Simone.

E invece ci avevano creduto.

E Simone aveva ripensato a tutte le volte che aveva tradito la loro fiducia.

Ognuno ha la reputazione che si merita.

Per quanto riguardava l'allenatore e la dirigenza della squadra, Simone aveva provato a protestare. «Proprio adesso che stavo cominciando a riguadagnare la stima del mister! Non puoi farmi questo!» aveva detto ad Artemide.

«Potevi pensarci prima di tentare di mandare all'aria un'operazione di gendarmeria internazionale!» aveva ribattuto lei.

«È tuo fratello quello che rischia di mandare tutto all'aria!»

Ma Artemide, su Ares, non voleva sentire ragioni. Non ci credeva. Le teorie di Margherita, secondo lei, erano deliri complottistici.

E così adesso Simone era lì, chiuso in una stanza a Castel Gandolfo, a misurare il pavimento coi propri passi e mangiarsi le unghie dal nervosismo, mentre a pochi chilometri di distanza, a Roma, stava per succedere il disastro.

Simone aveva avuto tempo per riflettere, durante quei giorni di prigionia (il tempo era l'unica cosa che aveva in abbondanza), e le riflessioni avevano assunto ben presto le sfumature della paranoia. Ad esempio, aveva riflettuto sulla necessità da parte della setta di far ricordare a Claudio la parola magica per attivare i desideri. Avrebbero tentato di usare un controincantesimo persuasivo? Oppure, conoscendo la loro propensione per il dolore e il sacrificio, avrebbero cercato di liberare quei ricordi usando la forza dell'amore?

E quindi Simone aveva immaginato atroci torture ai danni del povero Tiziano per suscitare in Claudio una reazione d'amore. Poi aveva riflettuto ulteriormente e si era chiesto: perché solo Tiziano? A quella partita ci sarebbero stati anche i genitori. Le tre persone che Claudio amava di più. Simone rabbrividiva al pensiero di ciò che la setta avrebbe potuto fare.

L'ultimo evocatore - [Desiderio, volume 2]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora