40. Il cubo di Rubik

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Claudio imparò a proprie spese che gli atleti professionisti non possono permettersi di fare lunghe convalescenze. Due giorni dopo lo straziante incontro con la madre fu costretto a tornare ad allenamento: lo aspettava nel tardo pomeriggio una visita dal medico societario, la dottoressa Salieri, che, salvo tragedie, l'avrebbe imbottito di pasticche per ridurre al minimo i sintomi e lo avrebbe mandato in campo a fare un primo allenamento di recupero. La dottoressa lo aveva comunicato al padre, perché Claudio aveva tenuto il telefono spento per due giorni (cosa che gli sarebbe probabilmente costata una multa).

Non sentiva la madre da quella sera di due giorni prima: sapeva che aveva trascorso la prima notte lì a Bologna, nella stanza del padre, e che lui era rimasto a dormire sul divano. Non aveva idea di come lei   avesse fatto a recarsi a Bologna, di come e quando se ne fosse poi andata, di come avesse fatto col suo lavoro. Era il suo ennesimo colpo di testa da ragazzina che non pensava alle conseguenze. 

Come lo sono stato io, ventun'anni fa.

Il padre era rimasto a casa, Claudio non gli aveva più chiesto di andarsene. Ma ci aveva parlato pochissimo. Avrebbe ricominciato a fare la seduta di allenamento mattutina con lui, non appena fosse stato un po' meglio. Ma con la consapevolezza di non essere la sua vera priorità.

Il racconto edificante della madre gli aveva mostrato lati di suo padre che non credeva esistessero, ma non gli aveva fatto dimenticare Stella, la giovane promessa tennistica che il padre allenava quasi ogni pomeriggio. Aveva giurato di essere venuto a Bologna apposta per Claudio. E certo, forse la presenza del figlio era stata un incentivo a trasferirsi. Ma era Stella quella a cui teneva di più. L'aveva scelta, l'aveva seguita, mirava a farla diventare professionista.

Era il tennis la passione del padre, non il calcio, e infatti avrebbe voluto fare anche di Claudio un tennista. In mancanza di meglio, lo aiutava a fare il calciatore. Ma Claudio non si illudeva, non si sarebbe più illuso sulle sue reali ambizioni.

Per quanto riguardava invece l'affetto e i sentimenti... Claudio non sapeva cosa pensare. Suo padre gli voleva bene? Voleva bene a sua madre, era evidente. Le era stato vicino, e Claudio non poteva che stimarlo, per questo: in alcuni momenti il racconto della madre l'aveva persino commosso. Ma quanto dell'affetto che Claudio ogni tanto percepiva come diretto verso di lui era in realtà solo un'estensione dell'affetto che il padre provava per la madre? Claudio aveva vissuto troppe volte nella sua vita l'illusione e la delusione: ogni volta che aveva pensato di essere un figlio amato, suo padre riusciva sempre a fare qualcosa che gli dimostrava menefreghismo o insofferenza. 

A cominciare dal primo soprannome che gli aveva affibbiato.

Il simpatico rompicoglioni.

Per quanto fosse un soprannome evidentemente scherzoso, Claudio era convinto ci fosse un fondo di verità. Era così che lo considerava, forse inconsciamente. Come si fa a voler bene a un rompicoglioni?

E poi c'era quell'episodio, che gli bruciava lo stomaco dalla rabbia ogni volta che ci ripensava, anche a distanza di quindici anni. Il padre aveva allenato Claudio per tre anni, dai cinque ai sette, prima di decidere di fare il grande passo di iscriverlo a un torneo per bambini. 

Non era andata bene. Claudio aveva perso al primo turno, sei zero sei zero. Il padre non aveva aspettato nemmeno un giorno: aveva deciso seduta stante di smettere di essere il suo allenatore e aveva annunciato a Claudio che l'avrebbe affidato a un altro coach. L'aveva fatto con tanti sorrisi e belle parole, ma l'aveva fatto.

Per Claudio era stata una doccia fredda. Sua nonna Michela gli aveva ripetuto incessantemente per tre anni che al padre in realtà non fregava niente di lui e che allenandolo voleva solo sublimare le proprie ambizioni fallite (lo diceva con parole semplici e comprensibili a un bambino, ma lo diceva). Claudio non ci aveva mai voluto credere, ma quel giorno aveva capito che in realtà sua nonna aveva sempre avuto ragione, e che al padre interessavano solo i suoi risultati sportivi. Nel momento in cui si era reso conto che il figlio era in realtà scarso, l'aveva mollato senza troppe remore.

L'ultimo evocatore - [Desiderio, volume 2]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora