12. Il battesimo

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Se c'era una cosa che Claudio odiava fare era cantare. E non solo perché era stonato come una capra con problemi alle corde vocali.

Odiava tutto del canto e dei cantanti: la frivolezza, l'esibizionismo da quattro soldi, i ridicoli gorgheggi virtuosistici in cui erano soliti esibirsi, l'espressione scontata di sentimenti scontati presenti nel novanta per cento delle canzoni esistenti sulla faccia della terra.

E adesso era lì, in piedi, con in testa una parrucca di nylon rosa (gentile omaggio della squadra), in mano un testo stampato su un A4 e una tavolata di compagni che lo esortavano a cantare, battendo i pugni sul tavolo. C'erano persino due cameriere, due delle bellissime cameriere pettorute di cui gli aveva parlato Fabrizio, che osservavano la scena in disparte, con aria divertita.

Era la sera del "battesimo" degli esordienti. Dopo la prima partita ufficiale era tradizione che i nuovi arrivati venissero sottoposti a un rituale, e il giorno prima il Felsina aveva giocato il primo turno eliminatorio della Tim Cup, la Coppa Italia nazionale, contro il Matelica, una squadra di serie D (vincendolo, motivo per cui tutti erano decisamente allegri e su di giri).

Ogni squadra professionistica aveva il suo rituale: alcune ci andavano giù più pesante, altre si limitavano a far ubriacare i malcapitati. Il battesimo del canto, solitamente, c'era sempre. Anche Simone e Tiziano ci erano passati, e gliel'avevano raccontato. Tiziano la pensava più o meno come Claudio, sul canto, quindi aveva odiato ogni secondo di All the single ladies, la canzone di Beyoncè che l'avevano costretto a cantare. In seguito era stato coinvolto anche in una partita di beer pong che aveva però brillantemente vinto senza doversi scolare nemmeno un goccio di birra.

Simone, invece, si era divertito un mondo, perché a Simone piaceva cantare. E bere (ma aveva giurato di non averlo fatto, Claudio non sapeva se credergli).

Quello a cui stavano venendo sottoposti Claudio e le matricole del Felsina era una versione alcolica del battesimo del canto. I compagni veterani avevano scelto una canzone, una per ciascun esordiente. Gli esordienti dovevano cantarla e al primo errore scolarsi uno shot di vodka. A Claudio avevano riservato un trattamento un po' speciale, essendo l'unico che era stato costretto a indossare un orpello (la parrucca), oltre che a cantare. Il suo turno era l'ultimo, e la canzone che i compagni avevano scelto per lui era, ovviamente, la sigla di quello stramaledettissimo cartone animato sulla cantante dai capelli rosa. Claudio avrebbe combinato un disastro persino con una canzone che conosceva, figuriamoci con una che non aveva mai sentito.

Il mio nome è Jem, sono una cantante...

Il soprannome Jem, fortunatamente, non aveva attecchito molto, forse perché l'età media della squadra era piuttosto bassa e quello era un cartone animato datato. Solo il capitano e due o tre dei compagni più anziani, ogni tanto, lo appellavano in quel modo. La parrucca però era stata accolta con un'ovazione da tutti, anche da chi quel cartone animato non lo conosceva.

«Rega', seriamente: nun so come fa. Nun la conosco.»

«Vuoi scolarti subito lo shottino? Senza neanche provare?» lo provocò Fabrizio. Era seduto all'estremità più distante del tavolo, accanto a Serafin, ben distante dal centro dell'attenzione. Ma ciò non gli aveva impedito di lanciare a Claudio quella piccola provocazione.

Tu quoque! Stronzo!

«Non posso cantà 'na canzone che conosco?»

«Tipo? Vediamo. Facci qualche proposta!» Gus, il capitano, sembrava di buonumore.

«Ma non è giusto!» protestò Luigi Marzo, un ragazzo di diciassette anni che arrivava in prestito nientemeno che dalla primavera dell'Inter (e per questo motivo se la tirava oltre l'inverosimile). La canzone che avevano affibbiato a lui era una robaccia esageratamente sentimentale di Laura Pausini.

L'ultimo evocatore - [Desiderio, volume 2]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora